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L’accanimento terapeutico e il Magistero della Chiesa Cattolica

“La vita dell’uomo non è un bene disponibile, ma un prezioso scrigno da custodire e curare con ogni attenzione possibile, dal momento del suo inizio fino al suo ultimo e naturale compimento”[8].

Sullo sfondo di tale profonda e perenne convinzione, già da tempo, in ambito cattolico, è in atto la discussione sulla liceità dell’accanimento terapeutico, o con una espressione più soft, delle cure eccessive. E’ infatti già lontano nel tempo il sorgere della discussione sulla necessità di salvaguardare il momento della morte liberandolo da tutte quelle forme che esprimono il tentativo di “di essere coinvolti personalmente in un dialogo con il morente, accanendosi a farlo vivere dopo l’ora della morte”[9].

Già Pio XII, nel suo discorso del novembre 1957 – Risposte ad alcuni importanti quesiti sulla rianimazione – affermava che la vita non è un bene da difendere ad ogni costo, poiché se pur l’uomo ha il diritto e il dovere, in caso di malattia grave, di intraprendere le cure mediche necessarie a conservare la vita e la salute, tale dovere non obbliga che all’impiego dei mezzi ordinari, vale a dire dei mezzi che non comportano alcun carico straordinario per se stessi o per gli altri e spetta al paziente “se è capace di decisione personale”, se non lo è, alla famiglia “lecitamente insistere perché il medico interrompa i tentativi”.

Il 3 ottobre 1970, in una lettera scritta a nome di Paolo VI al Segretario Generale della Federazione internazionale delle associazioni mediche cattoliche, il cardinale Villot, affermava “che, pur escludendosi l’eutanasia, ciò non significa obbligare il medico ad utilizzare tutte le tecniche della sopravvivenza che gli offre una scienza infaticabilmente creatrice. In tali casi non sarebbe una tortura inutile imporre la rianimazione vegetativa, nell’ultima fase di una malattia incurabile? Il dovere del medico consiste piuttosto nell’adoperarsi a calmare le sofferenze, invece di prolungare più a lungo, con qualunque mezzo e a qualunque condizione, una vita che non è più pienamente umana e che va naturalmente verso la conclusione”.

Come si è detto,  già Pio XII aveva distinto fra mezzi ordinari e straordinari di cura. Il carattere straordinario era definito in rapporto all’incremento di sofferenza che tali mezzi potevano procurare, oppure alla dispendiosità o alle difficoltà di usufruirne per tutti coloro che ne potevano fare richiesta.

In un passato non troppo lontano, infatti, i moralisti avrebbero affermato che l’uso dei mezzi “straordinari” non poteva essere obbligatorio. Tale affermazione è ancora valida in linea di principio, ma è oggi meno evidente, a motivo della sua indeterminatezza per i rapidi progressi nel campo delle moderne tecnologie. Per tale ragione, oggi si preferisce parlare di “mezzi proporzionati” e “non proporzionati”, in riferimento non più al “mezzo terapeutico”, quanto piuttosto al “risultato terapeutico”

Per facilitare l’applicazione di questi principi generali, nel 1980, sono state elaborate dalla Congregazione per la Dottrina della Fede le seguenti precisazioni[10]:

  • In mancanza di altri rimedi, è lecito ricorrere, con il consenso dell’ammalato, ai mezzi messi a disposizione dalla medicina più avanzata, anche se sono ancora allo stadio sperimentale e non sono esenti da qualche rischio. Accettandoli, l’ammalato potrà anche dare esempio di generosità per il bene dell’umanità[11].
  • E’ anche lecito interrompere l’applicazione di tali mezzi, quando i risultati deludono le speranze riposte in essi. Ma nel prendere una decisione del genere si dovrà tener conto del giusto desiderio dell’ammalato e dei suoi desideri, nonché del parere di medici veramente competenti; costoro potranno senza dubbio giudicare meglio di ogni altro se l’investimento di strumenti e di personale è sproporzionato ai risultati prevedibili e se le tecniche adottate impongono al paziente sofferenze e disagi maggiori dei benefici che se ne possono trarre.
  • E’ sempre lecito accontentarsi dei mezzi normali che la medicina può offrire. Non si può quindi imporre a nessuno l’obbligo di ricorrere ad un tipo di cura che, per quanto già in uso,  tuttavia non è ancora esente da pericoli o è troppo onerosa. Il suo rifiuto non equivale al suicidio; significa piuttosto o semplice accettazione della condizione umana, o desiderio di evitare la messa in opera di un dispositivo medico sproporzionato ai risultati che si potrebbero sperare oppure volontà di non imporre oneri troppo gravi alla famiglia o alla collettività.
  • Nell’imminenza di una morte inevitabile nonostante i mezzi usati, è lecito in coscienza prendere la decisione di rinunciare a trattamenti che procurerebbero soltanto un prolungamento precario e penoso della vita, senza tuttavia interrompere le cure normali dovute all’ammalato in simili casi. Perciò il medico non ha motivo di angustiarsi, quasi che non avesse prestato assistenza ad una persona in pericolo.

 

Il Pontificio Consiglio della Pastorale per gli Operatori sanitari, nel 1994, nella Carta degli Operatori Sanitari[12], afferma che: “All’ammalato sono dovute le cure possibili da cui può trarre un salutare beneficio. La responsabilità della cura della salute impone a ciascuno “il dovere di curarsi e di farsi curare”. Di conseguenza “coloro che hanno in cura gli ammalati devono prestare le loro opere con ogni diligenza e somministrare quei rimedi che riterranno necessari o utili. Non solo quelli miranti alla possibile guarigione, ma anche quelli lenitivi del dolore e di sollievo di una condizione inguaribile” (n. 63).

Prosegue poi affermando che: “L’operatore sanitario nell’impossibilità di guarire, non deve mai rinunciare a curare. Egli è tenuto a praticare tutte le cure “proporzionate”. Non c’è obbligo invece di ricorrere a quelle “sproporzionate”. In relazione alle condizioni di un ammalato, sono da ritenersi ordinarie, le cure in cui si dà rapporto di debita proporzione tra i mezzi impiegati e il fine perseguito. Dove non si dà proporzione le cure sono da considerarsi straordinarie.

Al fine di verificare e stabilire il darsi o meno del rapporto di proporzione in una determinata situazione, si devono “valutare bene i mezzi mettendo a confronto il tipo di terapia, il grado di difficoltà e di rischio che comporta, le spese necessarie e le possibilità di applicazione, con il risultato che ci si può aspettare, tenuto conto delle condizioni dell’ammalato e delle sue forze fisiche e morali” (n.64)

Il documento prosegue poi citando al numero successivo (n. 65) i criteri sulla proporzionalità delle cure del precedente documento della Congregazione per la Dottrina della Fede.

In tempi più recenti, in questo ambito il Catechismo della Chiesa Cattolica scrive: “La morale non richiede alcuna terapia a qualsiasi costo. L’interruzione di procedure mediche onerose, pericolose, straordinarie o sproporzionate rispetto ai risultati attesi può essere legittima… Non si vuole così procurare la morte: si accetta di non poterla impedire. Le decisioni devono essere prese dal paziente, se ne ha la competenza e la capacità, o altrimenti, da coloro che ne hanno legalmente il diritto, rispettando sempre la ragionevole volontà e gli interessi legittimi del paziente” (n. 2278).

Se pur quindi è possibile rinunciare a particolari trattamenti, ha affermato Giovanni Paolo II, questa rinuncia “non dispensa dal compito terapeutico di sostenere la vita o dall’assistenza con i normali mezzi di sostegno alla vita”[13].

Anche se è vero che i documenti della Chiesa non contengono un esplicito e diretto pronunciamento sulla nutrizione e sull’idratazione medicalmente assistite nel senso di dichiararle cure normali alla stregua dell’alimentazione e idratazione consuete, tuttavia è altrettanto vero che per la loro stessa natura e validità, ossia per il fatto di essere necessari e validi sostegni alla vita per sé, l’alimentazione e l’idratazione medicalmente assistite non possono non collocarsi in via normale tra le cure ordinarie e i mezzi normali[14].

Tuttavia, nell’ambito delle cure o trattamenti da somministrare ai pazienti che si trovano nella fase finale di una patologia si possono ricordare due documenti episcopali: il primo Nutrition and hydration: moral considerations, è della Conferenza Episcopale della Pennsylvania[15], il secondo è del Comitato Pro-Life dell’Episcopato degli Stati Uniti, Nutrition and hydration: moral and pastoral reflections[16].

Il documento del Comitato Pro-Life dei Vescovi USA nota che l’alimentazione e idratazione artificiale comporta un intervento e può diventare, almeno in certe situazioni, un aggravio per il paziente, specialmente nella fase dell’agonia o in condizioni in cui il morente non è più in grado di riceverle o di trarne beneficio. Di qui la necessità di esaminare la situazione caso per caso per rilevare se questo tipo di alimentazione in certe circostanze venga sentito come “intrusivo, doloroso e ripugnante”. In questi casi non sussisterebbe l’obbligo di imporre tale gravame al paziente.

Lo stesso documento afferma poi nelle conclusioni: “Noi rifiutiamo qualunque omissione di  nutrizione e di idratazione al fine di provocare la morte del paziente. Assumiamo il presupposto in favore della somministrazione dell’idratazione e dell’alimentazione assistite ai pazienti che ne hanno bisogno, presupposto che potrebbe venire meno nei casi in cui tali procedimenti non offrano la speranza ragionevole da un punto di vista medico di essere efficaci per mantenere in vita e richiedano rischi e costi eccessivi”.

Anche il documento dell’Episcopato della Pennsylvania sottolinea: “Come conclusione generale, quasi in ogni circostanza, vi è l’obbligo di fornire nutrizione ed idratazione al soggetto in stato di incoscienza. Esistono situazioni in cui questo non è valido, ma si tratta di eccezioni alla regola”.

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