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Costruire la storia clinica

 

Il rapporto tra paziente e medico si stabilisce, la maggior parte delle volte, intorno all’evento malattia, che è ovviamente inquadrato secondo prospettive diverse da parte dell’uno e dell’altro. In uno studio realizzato in ambulatori di Medicina Generale, infatti, è stato osservato che il 54% dei problemi ed il 45% delle preoccupazioni dei pazienti non erano rivelati durante la visita, né i medici sollecitavano la loro emersione Stewart. Avviene spesso che nel raccogliere l’anamnesi il medico trascuri la prospettiva del paziente ed adotti un approccio prevalentemente “euristico”, mirato ad identificare in ciò che ascolta segni e sintomi che gli consentano di inquadrare il caso secondo criteri classificativi prestabiliti Haidet. Un tale paradigma comunicativo, tuttavia, se è appropriato per la trasmissione di informazioni scientifiche, non lo è per il colloquio anamnestico, nel quale occorre fare spazio al paziente e mettere insieme i brani di storia, spesso interrotti e qualche volta contraddittori, che egli racconta. Questo approccio “narrativo” Hurwitz consente di cogliere elementi altrimenti inespressi Marvel, spesso cruciali per la diagnosi, apprezzabili solo tenendo conto della prospettiva dalla quale il paziente vive la propria condizione.

E’ stata suggerita una strategia in quattro tempi per costruire relazioni empatiche con i pazienti Matthews:

1.    Stabilire il rapporto: esso dipende dal rispetto e dall’interesse reciproci, manifestati da entrambi gli interlocutori. A tale scopo occorre lasciar parlare il paziente, saper riconoscere e rendere esplicite le sue emozioni.

2.    Far tacere dentro di sé commenti, critiche, domande e ragionamenti diagnostici mentre il paziente parla. Solo dopo sarà opportuno procedere a chiarire i punti oscuri del racconto ed a verificare le ipotesi cliniche.

3.    Mirare ad attingere i processi inconsci del paziente: ciò aiuterà a comprendere che cosa si cela dietro alle sue parole ed ai suoi silenzi ed a porre correttamente le domande volte a chiarire la diagnosi.

4.    Comunicare al paziente che lo abbiamo capito e lo accettiamo incondizionatamente. E’ qui che il processo empatico raggiunge il suo culmine e può cominciare a stabilirsi un rapporto profondo.

Vorrei sottolineare, in particolare, il silenzio interiore necessario per fare spazio a ciò che il paziente intende comunicare di sé e della sua esperienza di malattia. Esso esige la fatica di “svuotarsi” temporaneamente, in certo senso, del nostro sapere medico, che potrebbe costituire un ingombro verso una comunicazione piena. Non si può entrare nell’animo di un’altra persona, o – per meglio dire – far sì che l’altro, con il suo mondo esperienziale, possa entrare dentro di noi, se la nostra mente è occupata da nozioni, ipotesi e schemi. L’ascolto empatico richiede di essere liberi da ciò che abbiamo dentro: solo così si costruisce efficacemente un rapporto. E’ questa una regola di vita generale Lubich84, pienamente applicabile anche alla nostra professione.

Con un ascolto impostato così, il paziente percepisce il medico non più come distante, ma vicino, prossimo, suo simile. Tale percezione non è indifferente per chi vive l’esperienza della malattia. In uno studio condotto negli Stati Uniti su 214 pazienti afferenti a 29 Medici di assistenza primaria, è stato osservato che la percezione da parte del paziente di un’affinità personale col medico (a differenza dell’affinità etnica, di età o di sesso), predice il grado di soddisfazione, di fiducia e la volontà di aderire alla terapia. Tale percezione è a sua volta influenzata dalla misura in cui la comunicazione del medico è centrata sul paziente, mediante l’erogazione di informazioni, il supporto personale ed il coinvolgimento nella gestione dei problemi Street.

Quando qualcuno narra la propria storia, è influenzato dall’ascoltatore: l’attenzione e la risposta di quest’ultimo, espressa attraverso la mimica ed i gesti, modificano la modalità ed il contenuto della narrazione. Non possiamo raccontare due volte una storia esattamente allo stesso modo. Contemporaneamente, chi ascolta interpreta il racconto secondo il suo patrimonio di esperienza e reagisce di conseguenza GreenhalghHurwitz: il ponte tra narratore ed ascoltatore è percorso più volte da un traffico bidirezionale di messaggi. Il medico che ascolta il paziente, viaggiando avanti e indietro attraverso questo ponte, raccoglie la storia del malessere concreto del paziente, la informa delle sue nozioni scientifiche, la reinterpreta alla luce di esse ed infine la  restituisce al paziente come ipotesi diagnostica, espressa in forma di storia clinica Jones. Si parla, perciò, di costruire la storia clinica, piuttosto che raccoglierla, poiché essa risulta opera di entrambi gli attori, i quali vi contribuiscono ciascuno con le sue specificità, esperienziali da un lato e tecniche dall’altro Haidet.

Ecco definiti, allora, i tre obiettivi del colloquio clinico: non solo raccogliere le informazioni necessarie, ma anche costruire il rapporto attraverso un ascolto empatico Bellet e fornire al paziente le nozioni utili a gestire il suo problema Barrier. Occorre ammettere che non sempre, neanche nelle circostanze che lo richiederebbero di più, noi medici cogliamo l’occasione del colloquio clinico per costruire rapporti empatici. In un Ospedale degli Stati Uniti meridionali è stato valutato quanto spesso i medici (chirurghi ed oncologi) rispondevano empaticamente alle sollecitazioni dei loro pazienti. Su 20 visite audioregistrate, sono state identificate ed enumerate le opportunità di rispondere empaticamente a domande o frasi pronunciate dai pazienti su vari argomenti: la mortalità, la disabilità, la possibilità di un trattamento efficace, la fiducia o la sfiducia nei riguardi dell’assistenza medica, ecc. Ebbene, su 387 occasioni, i medici hanno risposto empaticamente solo in 39 occasioni, mentre in tutti gli altri casi hanno portato il discorso sul piano puramente biomedico.

 

 

 

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