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effetti_pratici_della_comunicazione_in_medicinaGli effetti pratici della comunicazione in Medicina

Chiedersi se la relazione ha un ruolo nel conseguimento degli scopi della medicina presuppone in via preliminare la definizione di tali scopi: che cosa ci proponiamo noi tutti, ciascuno nel suo ruolo, come medici?Una risposta in termini comuni può essere: aiutare le persone a vivere di più e meglio. In altre parole, potremmo dire: ridurre il numero dei decessi prematuri e migliorare la qualità di vita.Per la loro stessa natura, questi obiettivi lasciano spazio ad un continuo miglioramento. Possiamo chiederci in quale misura oggi la medicina riesca a perseguirli.

 

 

Introduzione

 

Dopo aver esaminato, nei due incontri precedenti, la struttura dell’io e la relazione interpersonale, cominciamo con oggi a vedere che ruolo essa ha nell’esercizio della professione medica. Oggi vorremmo esaminare più da vicino la relazione tra medico e paziente e chiederci se porre attenzione ad essa, dedicare impegno a migliorarla, investirvi energie e tempo ha delle conseguenze pratiche. In altre parole, questo impegno influisce sui risultati della nostra attività di medici? O non è, per caso, un’aggiunta elegante, un orpello che abbellisce il nostro lavoro, di cui ci piace fregiarci, ma che non modifica la sostanza di quello che facciamo e che i pazienti si aspettano da noi? Insomma, ci chiediamo: la relazione è un “oggetto di lusso”, che si può lasciare a chi non ha altro da fare, o è, invece, un elemento rilevante della nostra professione?

Fulvio Freda ed io ci proponiamo di offrire delle risposte a questa domanda da due diverse prospettive: Fulvio a partire dalla sua esperienza di chirurgo ed io da quella di internista impegnato nella prevenzione cardiovascolare, cercando di  evidenziare che cosa la letteratura scientifica ci insegna sull’argomento.

........................................... (Relazione di Fulvio Freda) .......................................................................

Chiedersi se la relazione ha un ruolo nel conseguimento degli scopi della medicina presuppone in via preliminare la definizione di tali scopi: che cosa ci proponiamo noi tutti, ciascuno nel suo ruolo, come medici? Una risposta in termini comuni può essere: aiutare le persone a vivere di più e meglio. In altre parole, potremmo dire: ridurre il numero dei decessi prematuri e migliorare la qualità di vita. Per la loro stessa natura, questi obiettivi lasciano spazio ad un continuo miglioramento. Possiamo chiederci in quale misura oggi la medicina riesca a perseguirli.

La risposta è complessa, perché varia a seconda delle diverse parti del mondo e delle patologie che si prendono in considerazione; inoltre, quando si nota una variazione della mortalità o della morbilità relative ad una malattia nel tempo, occorre distinguere il ruolo causale delle mutate condizioni di vita di quella popolazione da quello proprio della medicina. Consideriamo, a titolo di esempio, l’impatto della terapia sui danni provocati dall’ipertensione arteriosa, che è forse la malattia più diffusa (la sua prevalenza aumenta con l’età, fino ad interessare più del 50% delle persone oltre i 60 anni di età) Kearney ed è responsabile di una quota rilevante della mortalità e morbilità totale. Le evidenze disponibili sull’efficacia della terapia antiipertensiva nel ridurre la morbilità e la mortalità legate all’ipertensione arteriosa sono molto ampie BBLTT 00-08. Tuttavia, qual è l’effetto dell’intervento terapeutico nella popolazione reale, al di fuori degli studi clinici controllati? Se osserviamo la frazione di pazienti la cui ipertensione è ben controllata nei diversi Paesi del mondo, giungiamo a conclusioni ben diverse da quelle che farebbero sperare i grandi studi d’intervento: secondo i dati del progetto MONICA, la quota di ipertesi la cui pressione arteriosa è ridotta al di sotto dei 140/90 mm Hg è minore del 25% in tutti i Paesi considerati, e nella maggior parte di essi si discosta notevolmente da tale valore. Anche considerando solo gli ipertesi trattati, la percentuale di successo terapeutico è scarsa, poiché raggiunge di rado il 30% tra gli uomini ed il 50% tra le donne Antikainen. Se ne deduce che il potenziale della terapia antiipertensiva per ridurre la mortalità e la disabilità (cioè, per perseguire gli scopi principali della medicina) è ben poco utilizzato e, quindi, i vantaggi per le centinaia di milioni di ipertesi presenti nel mondo sono di gran lunga minori di quanto si potrebbe ottenere. Ed infatti si stima che, nonostante l’efficacia comprovata delle terapie disponibili, per l’anno 2001 siano attribuibili globalmente all’ipertensione arteriosa 7.600.000 decessi (13,5% della mortalità totale) e 92.000.000 di anni di vita con disabilità (6,0% del totale) Lawes.

Ci si può chiedere quali siano le ragioni della discrepanza tra l’efficacia degli strumenti a nostra disposizione per la terapia ed un esito così deludente. Tra i vari elementi che possono condurre all’insuccesso terapeutico, il settimo rapporto del Joint National Committee statunitense sulla prevenzione, il rilevamento, la valutazione ed il trattamento dell’iper­tensione arteriosa (JNC7) Chobanian ne sottolinea due, che sono validi per molti campi della medicina, se non per tutti: l’inerzia clinica, cioè il non perseguire con la dovuta energia gli obiettivi che l’evidenza disponibile indica come necessari, e la mancata motivazione dei pazienti. Gli autori del rapporto partono dalla considerazione che anche la terapia più efficace, prescritta dal miglior medico, produrrà i suoi effetti solo se il paziente è motivato a seguire le prescrizioni in termini di assunzione di farmaci e di adeguamento delle abitudini di vita. La motivazione migliora se il paziente nutre fiducia nel proprio medico e fa un’esperienza positiva del rapporto con lui: l’empatia “costruisce la fiducia ed è un potente elemento di motivazione”.


L’empatia: senso e definizione

Ecco dunque comparire, non in un documento prodotto da psichiatri o psicologi, ma nelle linee-guida ufficiali riguardanti una patologia di interesse internistico, un elemento relazionale. L’empatia, come vedremo, ha a che fare con le diverse fasi della nostra attività clinica, a partire dall’anamnesi fino al conseguimento degli obiettivi terapeutici.

Ma che cos’è l’empatia? Essa è stata definita come “la capacità di comprendere che cosa sta sperimentando un’altra persona dall’interno del suo sistema di riferimento: in altre parole, la capacità di mettersi nei panni dell’altro” Bellet. Questa immedesimazione con il paziente non dovrebbe giungere ad un coinvolgimento emotivo troppo intenso, che potrebbe disturbare l’obiettività necessaria all’esercizio dell’attività del medico e risultare per lui usurante. L’empatia, perciò, richiederebbe ad un tempo condivisione ed un certo grado di distacco Bolognini. Comprendere ciò che il paziente sente, porsi nella sua stessa prospettiva, però, non basta: occorre che egli avverta che il medico ha compiuto questo passo. La “capacità di comunicare questa comprensione” costituisce un elemento essenziale dell’empatia Hojat02. Infine, l’impegno attivo per alleviare la sofferenza del paziente ed il tener conto del contesto familiare e sociale in cui egli vive vengono oggi anch’esse considerate componenti dell’empatia clinica Garden.

Le ricadute positive di una condotta empatica sono diverse: essa rende i pazienti più propensi a comunicare sintomi e problemi, facilitando la raccolta delle informazioni e, di conseguenza, pone le premesse per una diagnosi più accurata ed una terapia migliore; aiuta il paziente a recuperare la propria autonomia ed a partecipare alla terapia, aumentandone l’efficacia; apre la strada ad interazioni che influenzano direttamente il recupero del paziente Halpern e si rivelano terapeutiche anche per il medico, perché capaci di rispondere all’esigenza basilare, presente in tutti noi in quanto uomini, di rapporti e di esperienze che diano significato alla vita Larson. Inoltre, esse rendono più accettabile l’incertezza clinica, caratteristica dell’esercizio della Medicina, e le situazioni in cui la risposta biomedica è insufficiente Suchman.

 


Costruire la storia clinica

 

Il rapporto tra paziente e medico si stabilisce, la maggior parte delle volte, intorno all’evento malattia, che è ovviamente inquadrato secondo prospettive diverse da parte dell’uno e dell’altro. In uno studio realizzato in ambulatori di Medicina Generale, infatti, è stato osservato che il 54% dei problemi ed il 45% delle preoccupazioni dei pazienti non erano rivelati durante la visita, né i medici sollecitavano la loro emersione Stewart. Avviene spesso che nel raccogliere l’anamnesi il medico trascuri la prospettiva del paziente ed adotti un approccio prevalentemente “euristico”, mirato ad identificare in ciò che ascolta segni e sintomi che gli consentano di inquadrare il caso secondo criteri classificativi prestabiliti Haidet. Un tale paradigma comunicativo, tuttavia, se è appropriato per la trasmissione di informazioni scientifiche, non lo è per il colloquio anamnestico, nel quale occorre fare spazio al paziente e mettere insieme i brani di storia, spesso interrotti e qualche volta contraddittori, che egli racconta. Questo approccio “narrativo” Hurwitz consente di cogliere elementi altrimenti inespressi Marvel, spesso cruciali per la diagnosi, apprezzabili solo tenendo conto della prospettiva dalla quale il paziente vive la propria condizione.

E’ stata suggerita una strategia in quattro tempi per costruire relazioni empatiche con i pazienti Matthews:

1.    Stabilire il rapporto: esso dipende dal rispetto e dall’interesse reciproci, manifestati da entrambi gli interlocutori. A tale scopo occorre lasciar parlare il paziente, saper riconoscere e rendere esplicite le sue emozioni.

2.    Far tacere dentro di sé commenti, critiche, domande e ragionamenti diagnostici mentre il paziente parla. Solo dopo sarà opportuno procedere a chiarire i punti oscuri del racconto ed a verificare le ipotesi cliniche.

3.    Mirare ad attingere i processi inconsci del paziente: ciò aiuterà a comprendere che cosa si cela dietro alle sue parole ed ai suoi silenzi ed a porre correttamente le domande volte a chiarire la diagnosi.

4.    Comunicare al paziente che lo abbiamo capito e lo accettiamo incondizionatamente. E’ qui che il processo empatico raggiunge il suo culmine e può cominciare a stabilirsi un rapporto profondo.

Vorrei sottolineare, in particolare, il silenzio interiore necessario per fare spazio a ciò che il paziente intende comunicare di sé e della sua esperienza di malattia. Esso esige la fatica di “svuotarsi” temporaneamente, in certo senso, del nostro sapere medico, che potrebbe costituire un ingombro verso una comunicazione piena. Non si può entrare nell’animo di un’altra persona, o – per meglio dire – far sì che l’altro, con il suo mondo esperienziale, possa entrare dentro di noi, se la nostra mente è occupata da nozioni, ipotesi e schemi. L’ascolto empatico richiede di essere liberi da ciò che abbiamo dentro: solo così si costruisce efficacemente un rapporto. E’ questa una regola di vita generale Lubich84, pienamente applicabile anche alla nostra professione.

Con un ascolto impostato così, il paziente percepisce il medico non più come distante, ma vicino, prossimo, suo simile. Tale percezione non è indifferente per chi vive l’esperienza della malattia. In uno studio condotto negli Stati Uniti su 214 pazienti afferenti a 29 Medici di assistenza primaria, è stato osservato che la percezione da parte del paziente di un’affinità personale col medico (a differenza dell’affinità etnica, di età o di sesso), predice il grado di soddisfazione, di fiducia e la volontà di aderire alla terapia. Tale percezione è a sua volta influenzata dalla misura in cui la comunicazione del medico è centrata sul paziente, mediante l’erogazione di informazioni, il supporto personale ed il coinvolgimento nella gestione dei problemi Street.

Quando qualcuno narra la propria storia, è influenzato dall’ascoltatore: l’attenzione e la risposta di quest’ultimo, espressa attraverso la mimica ed i gesti, modificano la modalità ed il contenuto della narrazione. Non possiamo raccontare due volte una storia esattamente allo stesso modo. Contemporaneamente, chi ascolta interpreta il racconto secondo il suo patrimonio di esperienza e reagisce di conseguenza GreenhalghHurwitz: il ponte tra narratore ed ascoltatore è percorso più volte da un traffico bidirezionale di messaggi. Il medico che ascolta il paziente, viaggiando avanti e indietro attraverso questo ponte, raccoglie la storia del malessere concreto del paziente, la informa delle sue nozioni scientifiche, la reinterpreta alla luce di esse ed infine la  restituisce al paziente come ipotesi diagnostica, espressa in forma di storia clinica Jones. Si parla, perciò, di costruire la storia clinica, piuttosto che raccoglierla, poiché essa risulta opera di entrambi gli attori, i quali vi contribuiscono ciascuno con le sue specificità, esperienziali da un lato e tecniche dall’altro Haidet.

Ecco definiti, allora, i tre obiettivi del colloquio clinico: non solo raccogliere le informazioni necessarie, ma anche costruire il rapporto attraverso un ascolto empatico Bellet e fornire al paziente le nozioni utili a gestire il suo problema Barrier. Occorre ammettere che non sempre, neanche nelle circostanze che lo richiederebbero di più, noi medici cogliamo l’occasione del colloquio clinico per costruire rapporti empatici. In un Ospedale degli Stati Uniti meridionali è stato valutato quanto spesso i medici (chirurghi ed oncologi) rispondevano empaticamente alle sollecitazioni dei loro pazienti. Su 20 visite audioregistrate, sono state identificate ed enumerate le opportunità di rispondere empaticamente a domande o frasi pronunciate dai pazienti su vari argomenti: la mortalità, la disabilità, la possibilità di un trattamento efficace, la fiducia o la sfiducia nei riguardi dell’assistenza medica, ecc. Ebbene, su 387 occasioni, i medici hanno risposto empaticamente solo in 39 occasioni, mentre in tutti gli altri casi hanno portato il discorso sul piano puramente biomedico.

 

 

 


Il valore del tempo

 

 

Costruire rapporti empatici, naturalmente, richiede del tempo, che spesso, nelle nostre ordinarie condizioni di lavoro, scarseggia, o noi stessi non siamo disposti a concedere. Uno studio eseguito in Germania intervistando 617 pazienti affette da carcinoma della mammella, ha evidenziato che la durata mediana della visita nella quale veniva comunicata la diagnosi era di 15 minuti; alla domanda su che cosa suggerissero di migliorare nell’assistenza, il 51% delle pazienti rispondeva che i medici dovrebbero dedicare più tempo a dare spiegazioni Oskay. Negli ambulatori di Medicina Generale, la durata delle visite può essere ancora minore: presso 112 Medici di famiglia di Madrid, la durata media delle oltre 3500 visite registrate era di 7,8 minuti Gonzalez. È stato inoltre osservato, esaminando registrazioni di colloqui clinici, che il paziente viene interrotto in media dopo appena 18 Beckman o 23 secondi Marvel.

Eppure, è notevole il vantaggio di incoraggiare il paziente ad esprimere il contesto psicosociale nel quale sono inseriti i suoi sintomi Heath. Il tempo dedicato a ciascun paziente contribuisce, tra l’altro, a determinare la fiducia che egli ripone nel proprio medico. In uno studio statunitense, eseguito su 100 medici di Medicina generale, è stato osservato che la fiducia nutrita per essi dai loro pazienti (50 per ciascuno) era correlata positivamente con la durata delle visite; inoltre, era maggiore se il medico si sforzava di comprendere l’esperienza che i pazienti avevano della malattia Fiscella.

È anche possibile che se il medico è troppo frettoloso, il paziente consideri l’ipotesi di abbandonarlo: in uno studio condotto su 2052 pazienti di tre diverse aree metropolitane negli Stati Uniti, l’idea di cambiare il proprio Medico di medicina generale o Ginecologo era legata a tre fattori: la scarsità di informazioni fornite dal medico (OR = 4,0; IC 95% = 2,4-6,6); non dedicare abbastanza tempo a rispondere alle domande postegli (OR = 3,3; IC 95% = 2,2 – 5,2); non dare risposte comprensibili (OR = 2,0; IC 95% = 1,3-3,0) Keating.

Occorre considerare, tuttavia, che non sempre noi medici siamo liberi di dedicare ai nostri pazienti il tempo che riterremmo necessario, poiché siamo legati a quanto ci viene richiesto dalle strutture per le quali lavoriamo. Questa difficoltà è ormai universale. Di 816 Cardiologi di Buenos Aires, il 66% riteneva adeguata per le loro visite una durata di 20-30 minuti, ma al 64% di essi le aziende sanitarie ne lasciavano a disposizione solo 10-15; l’89% degli intervistati riteneva che ciò costituisse una violazione dei principi etici da parte della loro azienda ed il 75% avvertivano di infrangere essi stessi l’etica professionale nell’aderire a tali disposizioni Doval. Qui in Italia, l’Accordo Collettivo Nazionale degli Specialisti Ambulatoriali prevede che le prestazioni non debbano durare “meno” di 15 minuti; tuttavia, presso molte ASL questa norma viene interpretata nel senso che si debba eseguire una prestazione “ogni” quarto d’ora, con la conseguenza di rendere l’attività degli specialisti meno accurata, di ridurre la fiducia che i pazienti nutrono in loro e, quindi, l’aderenza alla terapia ed i vantaggi di essa: in una parola, si disattendono i fini istituzionali stessi di un’Azienda Sanitaria.

 


Investire nel rapporto: ne vale la pena?

 

Un rapporto correttamente ed efficacemente impostato nel colloquio anamnestico è la premessa migliore per giungere all’alleanza terapeutica, cioè al coinvolgimento del paziente (ed eventualmente della sua famiglia) nel raggiungimento di obiettivi condivisi. Cercare di stabilire un rapporto qualitativamente valido in vista di tale alleanza comporta dei costi professionali: occorre impegnarsi più a fondo con ciascun paziente, studiare per acquisire le abilità necessarie, dedicare a ciò tempo ed energie. Ci si può chiedere se ne valga la pena, se tutto ciò produca un vantaggio in termini di risultati terapeutici, oltre il livello di fiducia del paziente, alla soddisfazione sua e del medico, all’intenzione di aderire alla terapia.

Come per tutta la letteratura riguardante il rapporto medico-paziente, anche gli effetti pratici dell’alleanza terapeutica sono stati molto studiati in ambito psichiatrico Martin, Howengo. Tuttavia, il coinvolgimento del paziente nella terapia è sempre più considerato importante anche in ambito internistico, come ad esempio nel controllo dei fattori di rischio cardiovascolare. Ho già citato l’esempio delle linee-guida statunitensi per il trattamento dell’ipertensione arteriosa. In un’osservazione personale recente, lo studio ICON, abbiamo valutato l’efficacia in termini di prevenzione cardiovascolare di un approccio basato sul rapporto empatico nei confronti di 503 pazienti anziani di basso livello socioculturale afferenti a due ambulatori di Medicina Interna del Sevizio Sanitario Nazionale situati in rioni popolari della città di Napoli. L’età avanzata ed il basso livello socioculturale sono fattori notoriamente associati ad una scarsa adesione alla terapia. Sono state adottate le misure suggerite dal JNC7 per fornire ai pazienti un rinforzo empatico. In particolare: è stato dimostrato interesse per le loro necessità e preoccupazioni; i passi compiuti in termini di modifiche delle abitudini di vita ed i miglioramenti clinici ottenuti sono stati sottolineati in maniera gratificante; in caso di scarsa risposta terapeutica, gli appuntamenti sono stati ravvicinati; è stato verificato che le indicazioni date venissero comprese adeguatamente; le problematiche incontrate nell’aderire alle misure farmacologiche e non farmacologiche sono state ripetutamente esaminate e le indicazioni riguardanti la dieta e le abitudini di vita sono state rinforzate ad ogni visita, suggerendo rimedi per superare le difficoltà. Ma soprattutto, si è cercato di praticare l’ascolto empatico, secondo i principi enunciati prima. Ciò ha condotto alla diagnosi di numerose condizioni di rischio cardiovascolare misconosciute ed al miglioramento significativo del profilo di rischio Marotta.

In un lavoro recentissimo, è stata studiata la relazione tra abilità comunicativa del medico e controllo del diabete mellito. La competenza nella comunicazione di 40 medici di medicina generale era valutata con un punteggio assegnato esaminando le registrazioni delle loro visite a 155 diabetici. I livelli di emoglobina glicata sono risultati minori nei medici con maggiore competenza comunicativa. Tale dato era riproducibile anche nel solo sottogruppo dei pazienti ispanici, suggerendo che i pazienti più svantaggiati si giovano particolarmente di un comunicazione di qualità. Le implicazioni di questa osservazione per il nostro ambito di lavoro saranno via via crescenti nel prossimo futuro.

Un altro ambito nel quale è stato studiato l’effetto della relazione medico-paziente è quello delle malattie infettive gravi. Diversi studi, in particolare, sono stati dedicati  all’infezione da virus HIV. In uno di essi, è stato valutato quanto il sentirsi “considerati come persone” dal proprio medico aiutasse questi pazienti a seguire la terapia. Dei 1743 pazienti intervistati, coloro che si sentivano considerati come persone avevano una maggiore probabilità di ricevere la  terapia antiretrovirale, di aderirvi e di avere livelli serici non misurabili di RNA virale. Beach.

Come si può comprendere da questi brevi accenni, gli elementi relazionali presi in esame e gli esiti clinici valutati nei diversi studi sono molto vari. Per tale motivo, non è stato finora possibile elaborare una metanalisi formale quantitativa dei lavori pubblicati. Tuttavia, revisioni sistematiche della letteratura hanno evidenziato una correlazione significativa tra efficiente comunicazione medico-paziente e miglioramento degli esiti clinici. In una di queste revisioni, dei 21 articoli che soddisfacevano i criteri d’inclusione prestabiliti, 16 riportavano risultati positivi. Sia la qualità della comunicazione durante la parte della visita dedicata all’anamnesi, sia la discussione del piano di gestione della malattia risultava influire sulla salute del paziente in termini di stato emozionale, risoluzione dei sintomi, funzionalità, controllo del dolore, misure fisiologiche come pressione arteriosa e glicemia  Stewart.

In un’altra, più recente revisione sistematica Di Blasi, gli autori si sono proposti di indagare sul meccanismo attraverso il quale il medico, relazionandosi con il paziente, può influire sul suo stato di salute. Essi hanno distinto un approccio cognitivo, nel quale il medico cerca di influire a livello cosciente sulle convinzioni del paziente circa l’esito della sua malattia, ed uno emozionale, nel quale, attraverso il proprio supporto psicologico, cerca di modificare in senso favorevole lo stato emotivo del paziente. Dei 25 studi considerati, tutti confronti clinici randomizzati, 19 riguardavano l’approccio cognitivo e gli altri esaminavano un intervento misto cognitivo-emozionale. Circa la metà degli studi mostrava variazioni statisticamente significative in senso positivo degli esiti clinici considerati; l’effetto era maggiore quando l’elemento cognitivo ed emozionale erano combinati. Laddove i medici adottavano uno stile caldo ed amichevole di relazione con i loro pazienti, rassicurandoli circa le loro prospettive di salute, si ottenevano i risultati migliori.

Certamente queste revisioni della letteratura sono passibili di errore, perché non tengono conto degli studi non pubblicati, i quali con maggiore probabilità di altri hanno un esito negativo. Tuttavia, sembra si possa ragionevolmente concludere che, sebbene manchi un’evidenza estesa ed inoppugnabile dell’efficacia clinica del rapporto medico-paziente, i dati in questo senso sono abbastanza coerenti.

 


Conclusioni

 

Da quanto esposto si può concludere che un’assistenza di buona qualità richiede non solo la prescrizione di un trattamento efficace, ma anche una buona comunicazione e lo sviluppo della fiducia, che è favorito dall’empatia Neuwirth.

L’aforisma secondo il quale “non esiste la malattia, ma il malato” esprime una realtà evidente, poiché ciascuno fa un’esperienza unica dello “star male”. Per assicurargli gli indubbi benefici della Medicina moderna, è  certamente nostro dovere di medici estrarre dalla narrazione del paziente ciò che lo accomuna agli altri, inquadrandolo come un “caso clinico”; tuttavia, se facciamo solo questo,  lo disumanizziamo, non lo trattiamo come persona e, invece di aiutarlo, possiamo in realtà aumentare la sua sofferenza Brody. Nostro compito è apprezzare l’unicità e l’irripetibilità della persona che ci sta di fronte Lubich02, senza spostare il fuoco dell’indagine clinica dagli aspetti ripetibili e biologici della malattia.

 Unicità e riproducibilità: due poli apparentemente opposti, ma integrabili da un rapporto correttamente impostato tra curante e paziente. Sono i due poli tra i quali si muove la Medicina: disciplina singolare, a cavallo tra le Scienze umane e quelle positive Hurwitz, perché più di ogni altra ha a che fare contemporaneamente con il mondo fisico e con quelli psicologico, sociale e spirituale. Chi la esercita deve necessariamente usare il rigore logico del metodo matematico-statistico e la duttilità, la capacità d’introspezione e d’immedesimazione che solo le scienze umane ed una profonda interiorità aiutano a sviluppare.

A contatto col paziente, noi medici abbiamo il compito di integrare la nostra personale esperienza clinica e la nostra sensibilità umana con la più solida evidenza scientifica disponibile Sackett. La Medicina si rivela, così, contemporaneamente una Scienza ed un’Arte Greenhalgh. Qui, forse, risiede il fascino di una professione che sempre più si va confermando essere pienamente se stessa solo se orientata all’uomo.

Teodoro Marotta

ASL Napoli 1 e Salerno 1, Unità Operativa Assistenza Sanitaria di Base

Corso “Relazionarsi per curare” - Terza lezione

Caserta, 19 dicembre 2009

 

 

 


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