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Il paziente, testimone di amoreForse è limitativo riferire un episodio particolare, in quanto la interrelazione è sempre determinante per la formazione professionale, per cui sarebbe sminuire un po’ questa potenzialità, che è sempre in divenire, notarne uno come particolarmente significativo. Tuttavia, sforzandomi di ricercare più nel bagaglio del cuore che in quello delle memoria e della ragione, mi viene in mente Maria V., anche perché evento legato agli albori della mia professione, e si sa che la memoria è presbite, come (ahimè) i miei occhi, ormai.

Ricordare quei tempi come “eroici” è forse eccessivo, ma è una tentazione in cui cadiamo tutti, credo. Sì, i primi tempi di neolaureato, con le grandi incertezze economiche che incombono sul presente e sul futuro; e allora fai tutto quello che è possibile per non dover chiedere ancora ai genitori, per quadrare qualcosa, per farti una tua indipendenza, poter coronare il sogno di costruire una famiglia con il tuo amato (e duraturo: 12 anni) bene. Mi accorgevo allora che la mia giornata non aveva tregua. Di mattina, pomeriggio, notte (per fortuna solo 2-3 per settimana) c’era sempre qualcosa da fare: la mattina all’Università, dove cercavo di portare avanti il sogno di inserirmi nell’impegno che mi interessava di più, avendo iniziato la specializzazione (che all’epoca non era pagata…), il pomeriggio e la sera dedicati all’attività di medico di base, la notte talora impegnata nella Guardia Medica. Proprio grazie a questi due “lavori” (tra l’altro precari come tutto il resto, e quindi insicuri: non era possibile nemmeno ammalarsi), un po’ bistrattati, se vogliamo, di fronte alla “nobiltà” della scelta universitaria, riuscivo ad avere quella indipendenza economica che desideravo, ma in cuor mio non li amavo come amavo (nonostante tutto, e nonostante fosse il più “infruttoso” e ingrato) l’impegno all’Università. Anche perché rischiavano di essere impersonali, e di non creare quell’“interrelazione” così necessaria e arricchente. Il medico della mutua, spesso costretto a trascrivere ricette di altri o soddisfare meri bisogni amministrativi; il servizio di Guardia Medica, con rapidi e fugaci approcci con gente che non rivedi più, non puoi seguire. Eppure, proprio svolgendo il lavoro di medico di base, ho potuto seguire e stare vicino a Maria V.

Lei sì, aveva scelto me come medico curante, proprio convinta, in quanto mi conosceva da bambino, essendo nata nel paese di origine dei miei, e ritrovarmi in città, laureato… Anche perché si accorgeva di aver bisogno di cure più che di un medico, e avere vicino un conoscente talvolta ti agevola in questo. Immobilizzata in un letto da tanti anni, costretta da una diagnosi sbagliata all’inizio (in seguito all’asportazione dell’utero, era stata interpretata la paresi subentrata alla fusione delle vertebre lombari come dovuta a metastasi, per cui l’unica terapia attuata tanti prima era stata una forte chemioterapia, più che mai venefica), aveva bisogno di una costante presenza. E qui il primo frutto dell’andare a trovarla a giorni a alterni: seppure nella miseria di due stanzucce senza luce e ingombre, potevo notare una luce: la presenza costante e amorevole di Mimì, il marito, un uomo piccolo, alto sì e no 1 metro e 50, discreto, umile, ma dal quale trasudava amore e bontà… La sua dedizione, la sua attenzione, la sua pazienza erano testimonianza per me, erano ammaestramenti, mi formavano umanamente e professionalmente. Cominciavo a toccare con mano che i santi non esistono solo in cielo, nelle statue o nelle figurine, ma sono tra noi, forse nascosti, ma proprio per questo più graditi a Dio, e forse più grandi di quelli celebrati sul calendario. Giorno per giorno, cresceva la stima e l’affetto tra noi. Pur accorgendomi che non avrei avuto successi medici, anche perché nel frattempo un ascesso presentatosi all’inguine mi aveva orientato per la giusta diagnosi: tubercolosi ossea, sentivo di dovere a maggior ragione stare vicino a loro due, che erano senza figli, come tutti quei volontari che si avvicendavano con fedeltà e amore in quella casa, dandomi una chiara testimonianza di solidarietà e di carità viva; certo non avrei avuto il successo professionale, non avrei mai raggiunto la guarigione, ma potevo essere vicino a quella situazione, prestare le mie cure, anche perché potevo applicare quanto avevo imparato nella specializzazione, tentando di rallentare il procedere dell’ascesso e delle piaghe, nonché quando era necessario cambiare il catetere vescicale. Forse se non fossi stato così ingenuo e sprovveduto, avrei attivato quelli che adesso i colleghi mutualisti chiamano “accessi”, ma in quel caso non mi preoccupavo del fattore economico, l’importante per me era quel continuo rapporto, da cui già ricevevo tanto.

Inoltre, e questo è quello che mi ha formato di più, mi colpiva la serenità, oserei dire, l’allegria dei due coniugi. In tanto dolore e afflizione, non ho mai sentito lamentarsi i due, imprecare, come pure avevano diritto. Si respirava un’aria di accettazione e di serenità, che aiutava e favoriva la voglia di andarli a trovare, di inserire anche questo appuntamento nel frenetico giro di impegni di quell’epoca. E tutto questo creava quell’empatia preziosa tra medico e ammalato; non potendo, come detto, darle la guarigione, cercavo di darle soprattutto una vicinanza e un calore umano. E questo era reciproco. Maria e Mimì, anche nella loro povertà, non mancavano mai di farmi avere degli omaggi per me e per le mie bambine, ma soprattutto mi davano delle cose preziose per la professione: fiducia, consenso, stima. E il culmine fu quando Maria mi consegnò un bigliettino scritto dalle sue mani incerte, ignoranti e quasi bloccate, in cui era espressa in maniera sgrammaticata, ma sublime più di ogni poesia, la riconoscenza: questo, lo considero il segno più alto di un rapporto medico-paziente.

Quando Maria volò in cielo, ci fu qualcuno a me molto vicina e cara che commentò: «Ti mancherà molto!». Aveva ragione, ma non del tutto. Sia professionalmente che umanamente mi manca spesso la possibilità di poter aiutare qualcuno che sappia riconoscere e apprezzare l’impegno al di là dei risultati, ma Maria e Mimì mi sono sempre presenti e più che mai vivi, nel modo prezioso in cui solo la memoria, la vita vissuta e la fede sanno proporre e comprendere.

In un mondo di individualismo e di invidie, più che mai accentuati a livello della professione medica, forse anche per le grandi responsabilità insite in essa, risulta molto difficile un sereno rapporto di fiducia e collaborazione tra colleghi e addirittura con il personale parasanitario. Tutto ciò è accentuato nel mondo accademico, dove istituzionalmente vige una rigida gerarchia, consolidata da secoli di consuetudine, nonché l’arrivismo è forse ancora maggiore che altrove. La stessa organizzazione dei nosocomi non può prescindere da una struttura gerarchica, e anche per questo risulta difficile un sereno rapporto con e tra dirigenti. Personalmente, non ho mai avuto facili contatti con chi mi è stato “sopra”, seppure tante volte si è riusciti a convivere più grazie alla reciproca accettazione, che alla convinzione e adesione. In questo la conoscenza e la frequentazione sono fondamentali, per sapere le positività e le negatività l’uno dell’altro. In un clima di rispetto, cosa indispensabile.

Tra i diversi primari con cui ho collaborato, avevo apprezzato il metodo che aveva proposto uno di loro: una riunione settimanale con tutto il personale sanitario e parasanitario in cui si presentavano e discutevano casi clinici, si programmava la ricerca, in una collegialità non frequente e difficile da realizzare nell’ambiente medico. Ma che pure sarebbe preziosissima, in quanto rivaluta la professionalità e l’impegno. Certo, non tutti eravamo presenti a quelle riunioni che duravano ore e ore anche al di fuori dell’orario di servizio, ma mi sembrava un metodo per confrontarsi e rapportarsi.

Ma questo non bastava: in fin dei conti, allo stringere, il primario voleva sempre avere ragione, dire la sua, senza accettare in pratica il parere degli altri. Anzi, sminuendo e dubitando della professionalità dei suoi collaboratori, come è capitato personalmente al sottoscritto, anche se dopo una conoscenza reciproca datante da circa trent’anni. E questo non poteva che provocare una divisione, che poi si è realizzata praticamente dopo poco tempo. Dalle intenzioni alla realizzazione esiste un grande baratro.

Il rapporto tra colleghi e con il personale parasanitario, spesso difficile, si può realizzare in serenità, se si applica la fiducia, il rispetto e si tenta di valorizzare il positivo. In un ambito quale quello partenopeo, in cui risulta difficile la professionalità, si devono valorizzare le positività, che sono l’umanità, la compassione, la vicinanza. E queste ognuno le può riscoprire dentro, se aiutato. E ciò significa anche non penalizzare eccessivamente per gli errori, che sono sempre possibili. Riconoscerli, correggerli, ma non esserne sommersi, farsene impedire.

Sulla fiducia e il rispetto si costruisce anche un giusto approccio interdisciplinare, che aiuta anche il funzionamento dell’apparato sanitario.

Ciò è ancora più vero quando si tratta di diversi specialisti che si occupano dello stesso paziente, come nel caso, delicatissimo, dell’oncologia, che spesso pratico. Allora, è quanto mai necessario il dialogo e la collaborazione; confrontarsi, aggiornarsi, correggersi. E poi, non considerare il paziente un “caso” da rinviarsi, come un tragico ping-pong, ma una persona, e quindi non abbandonarlo l’uno all’altro, ma seguirlo nel suo percorso umano.

di FULVIO FREDA

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