Oggi, infatti, a noi professionisti della salute non sono richieste soltanto competenze tecniche, ma accanto ad esse siamo sollecitati ad esercitare svariate altre abilità. Il documento sulla professione medica del Royal College of Physicians and Surgeons canadese (CANMEDS) indica una rosa di settori nei quali è richiesto al medico di spaziare per adempiere appieno a quanto gli è richiesto dalla società. Essi comprendono, accanto a quanto richiede la specialità medico-chirurgica esercitata, qualità nel campo della comunicazione e della gestione sanitaria,
capacità di collaborare con gli altri attori del campo della sanità, di studiare e di trasmettere le proprie conoscenze, nonché di farsi promotore del progresso della salute pubblica: tutto ciò concorre a formare un esperto della medicina.
PERTINENZA DELL’ARGOMENTO
L’argomento di questa relazione, sebbene non compaia nel titolo di questo congresso, è strettamente connesso con il suo tema. Oggi, infatti, a noi professionisti della salute non sono richieste soltanto competenze tecniche, ma accanto ad esse siamo sollecitati ad esercitare svariate altre abilità. Il documento sulla professione medica del Royal College of Physicians and Surgeons canadese (CANMEDS) indica una rosa di settori nei quali è richiesto al medico di spaziare per adempiere appieno a quanto gli è richiesto dalla società. Essi comprendono, accanto a quanto richiede la specialità medico-chirurgica esercitata, qualità nel campo della comunicazione e della gestione sanitaria, capacità di collaborare con gli altri attori del campo della sanità, di studiare e di trasmettere le proprie conoscenze, nonché di farsi promotore del progresso della salute pubblica: tutto ciò concorre a formare un esperto della medicina. L’ampiezza delle competenze richieste potrebbe a primo acchito sgomentare chi si trova ad operare da medico o da professionista sanitario non avendo quasi mai ricevuto una formazione adeguata a soddisfarle. Tuttavia è evidente che la complessità dell’organizzazione sanitaria attuale ed i gravi problemi di sostenibilità della spesa per la salute nella società globalizzata di oggi possono essere affrontati soltanto da professionisti con tali caratteristiche, o che almeno mirino a possederle.
A mano a mano che il mondo scientifico ha preso coscienza delle esigenze della professione nella società attuale, si è accresciuto rapidamente l’interesse per lo studio della professionalità medica. Il numero di pubblicazioni su questo tema si è ampliato in misura esponenziale negli ultimi anni (PUBMED) e diverse istituzioni mediche internazionali hanno ritenuto opportuno stabilire dei criteri ufficiali di professionalità, che tengano conto del processo di maturazione della cultura medica di fronte alle sfide ed alle esigenze della società moderna.
DEFINIZIONE E PRINCIPI
Tutti i documenti sulla professionalità medica pubblicati recentemente tentano anzitutto di definirla. Il Manuale Etico dell’American College of Physicians (Snyder) punta su tre elementi per caratterizzare la professionalità medica: la conoscenza, che dev’essere trasmessa ed estesa, l’etica che si incarna nel dovere di servire i pazienti al di là dei propri interessi e, d’altra parte, il “privilegio” dell’autonomia normativa, che la società garantirebbe alla classe medica. L’uso del condizionale è spontaneo per chi vive nel contesto europeo od almeno in quello italiano, dove quest’autonomia è progressivamente erosa da parte di autorità regolatorie spesso del tutto estranee al mondo della medicina.
Il Working Party on Medical Professionalism del Royal College of Physicians britannico (RCP) sottolinea che il comportamento del medico, ed i valori ai quali esso si ispira, devono influenzare soprattutto la relazione che egli instaura ed ispirare la fiducia della società nel singolo medico e nel corpo dei medici nel suo complesso. Questa fiducia, per le Istituzioni europee e nordamericane che hanno redatto la Carta della Professionalità Medica (MPP), assume il valore di un vero contratto sociale, che si fonda su tre principi fondamentali: il primato del benessere del paziente, la sua autonomia e la giustizia sociale. Ecco affiorare il tema dell’equità in medicina, che tenteremo di affrontare anche in questo congresso.
Dai principi generali derivano i doveri professionali, che la Carta della Professionalità Medica (MPP) enumera in: competenza tecnica, onestà, riservatezza, rispetto, perfezionamento continuo, attenzione all’impiego delle risorse (ecco che il contributo ad una medicina sostenibile entra a far parte del profilo professionale del medico), promozione della conoscenza, integrità, correttezza e disponibilità alla valutazione del proprio operato.
Ne emerge un complesso deontologico rigoroso e dal sapore piuttosto normativo. C’è chi ha criticato questa impostazione, sottolineando che il comportamento professionale non può reggersi soltanto sul senso del dovere, ma deve poggiare su valori interiori profondi, che l’autore non ha remore a definire “virtù” (Swick). Solo da questa radice può derivare il disinteresse.
LE MOTIVAZIONI
Al confronto con la Carta, il documento del Royal College of Physicians sottolinea maggiormente le motivazioni che sottendono l’agire etico del professionista. Il commento editoriale del Lancet che lo presentava ai lettori parlava, infatti, proprio di virtù (Horton). Nel presentare la figura del medico (ma molti elementi del ritratto che se ne ricava potrebbero essere estesi a chiunque operi per la salute dell’uomo), il documento (RCP) esordisce con un’affermazione che un italiano avrebbe forse pudore a pronunciare in ambito laico: la medicina è una vocazione. Ma nell’interpretare il senso di questa espressione, alla quale ovviamente non si può attribuire un significato esclusivamente religioso, mi è venuto in aiuto un personaggio molto noto in Italia, di convinzioni esplicitamente non religiose, ma aperto al dialogo con la fede. Eugenio Scalfari, il fondatore del giornale “la Repubblica”, sostiene che anche quella del giornalista è una vocazione: se essa manca, “è inutile provarci”. E spiega questo termine affermando che il giornalismo “non consente un tempo autonomo rispetto alla professione”. Anche noi “siamo” medici, odontoiatri, biologi, infermieri, ecc., non “facciamo” i medici od altro. Siamo medici sempre, anche fuori servizio, perché connaturalmente aperti, se professionisti autentici, ad accogliere i bisogni degli altri. È la nostra stessa struttura interiore, il nostro stesso essere uomini, esseri sociali, che ci chiama (vocat) a guardare gli altri, ad occuparcene, ed a farlo, in particolare, attraverso l’attività clinica e scientifica. Ancora Scalfari: “Vocazione al giornalismo vuol dire voglia e capacità di entrare nella vita degli altri”. Per noi si può dire: ”voglia e capacità” (che ci derivano entrambe dalla nostra vocazione) “di lasciar entrare in noi la vita degli altri”, non certo “per raccontarli”, come avviene per il giornalista, ma perché gli altri possano svuotarsi del loro problema e noi possiamo farcene carico, offrendo le nostre conoscenze per aiutarlo a risolverlo, se è possibile, od a portarlo meglio, in caso contrario.
DAI PRINCIPI ALL’ATTUAZIONE CONCRETA
La risposta a questa chiamata è il servizio all’uomo, che il medico esercita mettendo a disposizione ciò che ha e ciò che è. Ed il primo servizio che possiamo offrire al paziente, che precede temporalmente e talvolta anche in altri sensi la diagnosi e la terapia, è il rapporto che costruiamo con lui. Il rapporto è anche la prima forma di protezione e di reintegro del benessere del paziente, nonché del medico stesso, proprio in forza della natura intrinsecamente sociale dell’uomo. Ha senso, allora, parlare di “partnership”, di collaborazione solidale, nella quale il medico ed il paziente si trovano sullo stesso piano esistenziale.
La solidarietà con il paziente non esime il medico e l’operatore sanitario dall’assumersi singolarmente le proprie responsabilità, di cui devono essere disposti a render conto nelle sedi appropriate. In un certo senso, è questo che rende possibile la solidarietà. Solo se, coscienti della possibilità di sbagliare, abbiamo il coraggio di operare ugualmente in favore dei nostri pazienti o della collettività, pronti a rispondere delle nostre scelte, solo allora siamo in grado di offrire qualcosa di veramente nostro. Sta qui l’antidoto alla medicina difensiva, all’inerzia clinica ed a quella gestionale che tante volte osserviamo e che sono sempre in agguato in ciascuno di noi. L’individualità precede, sotto questo profilo, la socialità, e nello stesso tempo è in funzione di essa. È l’aspetto “cruciale” (da crux, cioè difficile, che richiede sacrificio) dell’agire medico. Chi vuol vivere appieno la propria professionalità non ne rifugge, ma lo assume pienamente, sapendo che esso è costitutivo della propria scelta di lavorare per la salute dei suoi simili.
Non è possibile qui prendere in esame in dettaglio gli impegni concreti che discendono da questi principi generali e che il documento del Royal College of Physicians elenca. Accenno soltanto alla “compassion”, altro termine audace per chi lo voglia tradurre letteralmente. Patire-con” presuppone il penetrare in ciò che l’altro soffre, cioè l’empatia. Essa è oggi ben definita, accuratamente descritta, molto studiata ed autorevolmente raccomandata. Rende i pazienti più propensi a comunicare, facilitando la diagnosi, potenzia l’efficacia terapeutica e rende possibili interazioni vantaggiose sia per il paziente che per il medico. Anche noi abbiamo potuto osservare che applicando ad una popolazione di pazienti ambulatoriali ultrasessantenni quanto suggerito dalle linee-guida vigenti riguardo alla costruzione di un rapporto empatico, si è giunti alla diagnosi di numerose condizioni misconosciute di rischio cardiovascolare ed al miglioramento del profilo cardiometabolico (Marotta). Analogamente, è stato osservato per i pazienti infettati con il virus dell’immunodeficienza umana il sentirsi “considerati come persone” migliora l’adesione alla terapia antivirale e la probabilità che l’RNA virale sia reso irrintracciabile nel siero (Beach).
L’esperienza ci dice, tuttavia, che un’empatia autentica, una “con-passione” piena è attuabile solo posponendo ciò che si ha dentro di doloroso od anche di gioioso e di soddisfacente, per fare di sé uno spazio vuoto nel quale l’altro possa entrare e sentirsi accolto. Nella strategia per costruire un rapporto empatico proposta da Matthews (Matthews), un posto di rilievo spetta al far tacere dentro di noi commenti, critiche, domande e ragionamenti diagnostici mentre il paziente parla. Solo dopo sarà opportuno procedere a chiarire i punti oscuri del racconto ed a verificare le ipotesi cliniche. Questo silenzio interiore è necessario per fare spazio a ciò che il paziente intende comunicare di sé e della sua esperienza di malattia. Esso esige la fatica di “svuotarsi” temporaneamente, in certo senso, del nostro sapere medico, che potrebbe costituire un ingombro verso una comunicazione piena. Non si può penetrare nell’animo di un’altra persona, o – per meglio dire – far sì che l’altro, con il suo mondo esperienziale, abbia accesso alla nostra sfera cognitiva e – entro certi limiti – affettiva, se la nostra mente è occupata da nozioni, ipotesi e schemi. L’ascolto empatico richiede di essere liberi da ciò che abbiamo dentro, interiormente “poveri”: solo così si costruisce efficacemente un rapporto. E’ questa una regola di vita generale (Lubich), pienamente applicabile anche alla nostra professione. E’ la base della narrative based medicine.
Un rapporto costruito su questa base va ben al di là di qualunque norma o garanzia definita dagli organi regolatori della sanità (Irvine).
DUE ASPETTI SPECIALI
Ancora un cenno a due aspetti della professionalità. Il primo, sul quale negli ultimi anni gli studi sono letteralmente esplosi, riguarda le modalità di trasmissione ai giovani della professionalità. È evidente che non è possibile affrontare qui un argomento che richiederebbe una relazione, o forse un congresso, a sé stante. Va detto, tuttavia, che lo studente che si affaccia alla professione è davanti ad un bivio: la sua fisiologica ingenuità e l’idealismo che, augurabilmente, si porta dentro, possono evolvere in maturità professionale o regredire in cinismo (Hilton). L’evoluzione in uno dei due sensi dipende in larga misura dalla formazione che il giovane riceve, non soltanto quella formale, ma anche quella pratica – informale - e quella “occulta”, cioè quanto lo studente apprende dal contatto con i docenti e dall’ambiente nel quale è immerso durante gli studi e poi nei primi anni della sua attività (O’Sullivan). È responsabilità di tutti noi, che componiamo il mondo della medicina, far sì che coloro che vi entrano sviluppino una piena e corretta professionalità.
Infine, occorre sottolineare che oggi, molto più che in passato, la professione medica non può essere condotta in solitudine. Per quanto dotato di buone intenzioni e di competenze adeguate, il singolo professionista non è in grado di assommare in sé tutto quanto la medicina attuale può offrire e di cui il paziente ha, quindi, diritto di fruire. Il medico-buon-samaritano oggi non è più concepibile (Collier): occorre saper lavorare in squadra e, se occorre, saper organizzare un gruppo di lavoro. Per offrire prestazioni al livello di eccellenza, il medico deve saper incrementare il più possibile la relazione fra tutti coloro con i quali lavora (RCP). Ciò al fine di contribuire a formare un corpo capace di accogliere efficacemente il paziente, il quale, essendo anch’egli, come lui, strutturato per la socialità, si sentirà a proprio agio solo se accolto in un ambiente che abbia per norma la relazionalità e per fine la sua salute psicofisica.
In fondo, il modo migliore per aver cura del paziente è curarsi di lui (Peabody).
Teodoro Marotta
BIBLIOGRAFIA
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