essere maestro e modello. Non è facile rispondere alla domanda implicita nel titolo: “Che cosa fa essere un bravo docente in medicina?” Non è facile per vari motivi: una prima sfida è collegata al contesto in cui oggi il docente si trova a svolgere il suo compito di formatore.Cosa suscita oggi nell’immaginario sociale la medicina?
- Un rapido susseguirsi di scoperte scientifiche senza dubbio importanti, spesso espressione di una medicina sempre più tecnologica, che sembra offuscarne la dimensione umanistica e relazionale.
- Le critiche e le polemiche quasi quotidiane per gli episodi di malasanità, che richiamano ad un cambiamento quanto mai necessario radicale nell’operato di alcuni, ma nello stesso tempo oscurano l’impegno e la dedizione di tanti bravi professionisti.
- Le strettoie di un sistema sanitario nel quale il medico può sentirsi espropriato del suo ruolo per sottostare a rigidi criteri economici e organizzativi.
Tanto che verrebbe da domandarsi se i giovani vogliano ancora oggi intraprendere questa professione. Eppure, se ci si basa sui numeri delle domande di ammissione alle facoltà biomediche, è evidente che sono numerosi quanti vorrebbero intraprendere una formazione in questo campo.
Recentemente si è discusso parecchio sulla congruità dei test di selezione, che oltre a non approfondire gli aspetti attitudinali e motivazionali, privilegiano un nozionismo avulso dal percorso formativo precedente.
Se questo è vero, il percorso accademico dovrebbe anche essere in grado di verificare le potenzialità di ogni studente a sviluppare quelle caratteristiche personali necessarie per una professione di cura.
Si sostiene che attualmente il curriculum delle facoltà biomediche può avere spesso l’effetto di “disumanizzare” gli studenti e trasformare le loro idealità in cinismo .
Troppo spesso poi, la mancanza di attenzione esplicita ai valori dell'umanesimo e della professionalità autentica contribuisce a creare ambienti di apprendimento che sono antitetici a una buona assistenza medica . Senza pensare che i modi in cui vengono trattati i tirocinanti, i valori trasmessi dai docenti e dalle istituzioni esercitano una grande influenza sul modo in cui a loro volta gli studenti tratteranno i loro pazienti, se stessi, gli altri.
Risulta ancora che alcuni aspetti del processo formativo possono provocare conseguenze negative sulla salute degli studenti . Alcune ricerche evidenziano che gli studenti di medicina presentano un’incidenza elevata di disagio personale, con potenziali risvolti sulla performance accademica, sulla competenza, sulla professionalità, sulla salute (disonestà accademica, cinismo, abuso di sostanze, suicidi).
In un momento in cui le università preferiscono essere conosciute per la ricerca, piuttosto che per la formazione, si corre il rischio di un “allevamento” scientifico di una nuova generazione di professionisti, che non saranno né soddisfatti, né emotivamente competenti a prestare l'assistenza clinica quotidiana che è alla base della medicina.
Problema non certo nuovo, se pensiamo che Abraham Flexner 100 anni fa aveva pubblicato il Rapporto che riformava radicalmente la formazione medica negli Stati Uniti : già a quei tempi temeva che il pendolo avesse oscillato troppo verso la scienza, allontanandosi dagli aspetti umanistici della medicina. Per ottenere la “chimica” giusta per le future generazioni, si augurava che venisse elaborato un approccio più olistico, più sofisticato nella selezione, basato su fattori predittivi di capacità di cura, che fossero coerenti (validi) e rilevanti rispetto ai bisogni e alle aspettative dei pazienti .
E’ passato ormai più di un secolo, ma quanto è cambiato?
Certo, è arduo riuscire a definire programmi e criteri che riescano a soddisfare tutte queste caratteristiche.
Si è affermato che parlare di ruolo e di compiti dei docenti nella formazione è un po’ come parlare di storia della pittura a partire dai pennelli…
Si può provare comunque a chiedersi: quali obiettivi dovrebbe porsi il docente? E prima ancora: quali requisiti dovrebbe possedere? E’ stato affermato che il bene più prezioso di ogni università sono i docenti definiti “ispirati”, o addirittura “spiriti illuminati” : persone che possiedono quel qualcosa di indefinibile che sa suscitare l'interesse e l'entusiasmo degli studenti . Eppure si constata che queste persone sono così rare in tutte le facoltà biomediche. Quanti pochi docenti hanno il potere di lasciare un’impronta nella memoria dei loro studenti!
I medici che si dedicano ad una forma di insegnamento in genere lo fanno deliberatamente e con passione, eppure la loro preparazione a questo ruolo è approssimativa . Spesso devono la loro bravura sul campo essenzialmente alla loro esperienza e al loro intuito, a prescindere da qualsiasi tipo di preparazione formale.
In che modo è possibile colmare questo gap tra la preparazione tecnica e il rendimento di un docente? Un metodo è quello di considerare il processo di apprendimento come un’esperienza umana basilare e l’insegnamento come una forma di relazione interpersonale (basata sul coinvolgimento del docente e sul suo desiderio di rendersi utile ai suoi allievi). Per questo, come ciascuno ha il proprio stile nelle relazioni interpersonali, così anche lo stile di insegnamento non si limiterà a comportamenti stereotipati, ma ciascun docente avrà il proprio stile: dipende anche dallo studente che ha di fronte, dalla sua voglia e dal suo sforzo per apprendere, dalle sue esigenze e priorità.
L’eccellenza, in campo didattico, è frutto di più fattori, ma probabilmente il più importante è un interesse sincero e profondo nell’aiutare i propri studenti nel processo di apprendimento .
Oggi le informazioni possono essere reperite in abbondanza su riviste, libri di testo, CD: il ruolo del docente non è tanto quello di elargire nozioni, a rischio spesso di scarsa correlazione con la clinica, quanto essenzialmente di rendere la pratica della professione comprensibile e ricca di significato. Più che trasmettere dati, è chiamato a “formare”, a fornire quell’elemento in più, che va al di là di quello che normalmente compare nei libri di testo, per favorire il ragionamento clinico e il percorso professionale dello studente.
Si parla molto dell’importanza della mentorship nella formazione accademica. E’ noto come la figura del mentore si ispiri alla mitologia greca; quando Ulisse partì per l'assedio di Troia, Atena, dea della saggezza, si presentò come Mentore, cioè un amico fidato che si assunse la responsabilità del figlio di Ulisse, Telemaco. Mentore non era solo un maestro, ma anche una presenza determinante per la crescita e lo sviluppo dall’infanzia all’età adulta di Telemaco.
La figura del docente nel ruolo di mentore richiede quindi un coinvolgimento importante e si capisce perché sia stata ampiamente riconosciuta come un ingrediente determinante per il successo della formazione in medicina: può potenziare le conoscenze implicite nel cosiddetto “curriculum nascosto” della professionalità, dell’etica, dei valori e dell’arte della medicina, tutti elementi che non si possono apprendere dai testi. Ma ancora può fornire un supporto emotivo, un incoraggiamento. Nello stesso tempo si sperimenta che questa relazione va a vantaggio anche del docente, inducendo una maggiore produttività, soddisfazione, gratificazione personale.
Certo, per massimizzare la qualità e i frutti di tali rapporti si presuppone una consapevolezza di sé, attenzione, rispetto reciproco, una comunicazione autentica .
Una interazione sostanziata da queste caratteristiche si è rivelata anche un potente facilitatore di apprendimento e di cambiamento di comportamenti non adeguati, di rivalutazioni di protocolli, centrandoli sul singolo paziente .
Ancora, nella formazione va privilegiata la pratica: non è sufficiente avere davanti a sé dei bravi professionisti per imparare, occorre che ciascuno studente sperimenti non solo le diverse tecniche, ma sperimenti anche come rapportarsi con il paziente. Già in qualche Università, anche italiana, si è iniziato a far frequentare i reparti agli studenti del primo anno, non per prestare assistenza o imparare tecniche, ma per essere educati al contatto umano con i malati, quindi indipendentemente da atti prettamente sanitari. In tal modo i giovani si rendono conto delle necessità dei pazienti in quanto esseri umani, con tutto il loro bagaglio di problemi e sofferenze.
D’altra parte, si sostiene che si apprende il 10% di ciò che si legge, il 20% di ciò che si ascolta, il 30% di ciò che si vede, il 50% di ciò che si vede e si ascolta, l’80% di ciò che si dice, il 90% di ciò che si fa. E tutto questo con effetto sinergico .
Inoltre si mettono così a fuoco gli aspetti umanistici della medicina, che si potrebbero definire come medical humanities: si richiede cioè di integrare la conoscenza scientifica con la conoscenza umanistica, con l’esperienza di malattia letta nell’ambito della storia personale di ogni singolo paziente.
E’ evidente che il reale interesse per il benessere dei pazienti non si può imparare se non attraverso l’esempio.
E ciò è confermato, in negativo, anche da ricerche recenti: l’ostacolo principale nella formazione si è rivelato proprio il comportamento non professionale dei formatori, a volte “protetto” da una gerarchia stabilita dall’autorità accademica .
Un modo efficace per educare a cogliere le esigenze dei pazienti, richiede che i docenti dimostrino sensibilità prima di tutto verso le esigenze dei loro studenti, secondo la regola “Tratta i tuoi studenti come ti piacerebbe che questi trattassero i loro pazienti…”. Se poi gli allievi constatano che il docente si comporta effettivamente in questo modo con i pazienti, l’insegnamento può dirsi veramente completo. Un buon docente non può essere ridotto alla tecnica: dipende dalla sua personalità e dalla sua integrità , .
Ma anche la correzione è un aspetto importante nel processo formativo: accettare di verificare il proprio operare può essere motivo di crescita e miglioramento anche nel campo professionale. Ho sperimentato però che l’effetto più soddisfacente si ottiene se la critica viene fatta sinceramente, per aiutare l’allievo, nel tono giusto. Allora ha anche l’effetto di cementare la relazione tra docente e studente. E ugualmente non vanno risparmiate lodi e incoraggiamenti.
La medicina di oggi richiede una nuova sfida. Non sembra più questo il tempo del docente quale maestro che da solo fonda una “scuola” per così dire, quasi una persona con un “carisma”, come si verificava tempo fa. La complessità derivante dalle tecnologie applicate alla medicina, dalle conoscenze e scoperte che si susseguono a ritmo incalzante richiede necessariamente una nuova competenza e cioè la capacità di saper lavorare insieme, capacità che non si improvvisa né si può dare per scontata.
Oggi si sottolinea sempre più il team di cura, il lavoro in équipe, la multidisciplinarietà.
Ma siamo formati, sia come studenti che come docenti, a questo?
Il processo formativo spesso è ancora rivolto più ad uno svolgimento “autonomo” della professione: di conseguenza nei diversi luoghi assistenziali a volte viene in evidenza piuttosto l’individualismo, il corporativismo, la difesa del proprio ruolo, l’obiettivo della carriera anche a scapito degli altri colleghi.
E non è sufficiente trovarsi ad interagire nello stesso ambiente di lavoro per creare il team, il lavoro in équipe: è necessario che non solo i docenti o i tutor, ma tutte le diverse figure coinvolte lo perseguano attivamente. E anche i pazienti lo avvertono, con indubbi vantaggi sui risultati di cura, oltre che sul clima relazionale.
Quanto è importante il rapporto con il paziente: spesso si avverte di ricevere molto più di quanto si dà. Come ho sperimentato io stessa – ma ognuno di noi potrebbe riportare la stessa esperienza – la vita professionale è intessuta di tanti momenti significativi nei quali ci si sente “plasmati”, a volte “sanati” nelle relazioni stabilite con il paziente, in una condivisione di sospensioni, di momenti dolorosi, di nuove speranze, che sono arricchenti umanamente, che aiutano a rimettere a fuoco gli aspetti essenziali non solo della professione, ma della stessa esistenza.
Ma tutto questo si può tradurre anche nella relazione tra docente e studente: come il docente può infondere entusiasmo, passione, far scoprire motivazioni, così lui stesso può ricevere altrettanto, per cui si crea una reciprocità. Lo studente può stimolare il docente a tenersi più aggiornato per l’aspetto strettamente clinico-scientifico, in modo da essere in grado di rispondere alle domande, ma anche ad essere più bravo per l’aspetto etico-deontologico. Le idealità si possono offuscare con il passare del tempo, con il lavoro a volte logorante. Quante volte mi sono sentita interpellata proprio dagli studenti o dai giovani professionisti, messi in crisi di fronte a comportamenti scorretti o semplicemente perché i docenti considerano scontate alcune prassi non trasparenti.
E’ evidente che sono necessarie energie, motivazioni, determinazione per affrontare le difficoltà fuori e dentro di sé, per trovare la strada per superarle.
Ci troviamo tutti, sia docenti che studenti, specializzandi, giovani professionisti, dentro diversi sistemi - accademici, sanitari, istituzionali - che a volte sembrano incentrati sulla struttura, più che sulle persone per cui in realtà la stessa struttura è stata creata. Può sembrare impossibile agire per un cambiamento delle varie organizzazioni. Ma forse dovremmo ricordare che ognuno di questi sistemi è formato da persone.
Se vogliamo dare un contributo in vista di una possibile trasformazione, un primo passo potrebbe essere quello di cercare un dialogo con le persone che vi lavorano: insomma, puntare alla singola persona, qualunque ruolo ricopra. Non sembra forse così semplice né così immediato da realizzare.
Certo è che il passo di uscire da sé per vivere l’altro, per condividere le sue difficoltà, per cogliere le sue aspettative, suscita potenzialità inaspettate, può generare un rapporto “che va e che torna”. E spesso è questo “ritorno” che fa riacquistare serenità, ritrovare il senso del nostro agire, scoprire possibili risposte. Così avviene il salto di qualità: la reciprocità può trasformare ogni componente del mondo sanitario - operatore o paziente - ogni componente del mondo accademico - studente o docente - in soggetto, in protagonista del cambiamento.
In effetti, è stato affermato che “la speranza non è credere che le cose cambino, sperare è credere che tu puoi fare una differenza” .
Flavia Caretta
Università Cattolica del Sacro Cuore
Facoltà di Medicina e Chirurgia “A. Gemelli” - Roma