Si sostiene che attualmente, a motivo del rapido sviluppo economico e sociale, le Scuole preparano studenti per lavori che non sono ancora stati creati, per tecnologie che non sono ancora state inventate e si presenteranno problemi che ancora non conosciamo.
E questo si riflette anche nei corsi di Laurea in ambito biomedico. Sorge subito una domanda: gli attuali metodi di formazione in medicina rappresentano sempre un progresso, rispetto alla prospettiva originaria della medicina, fondata su una visione globale della persona?
Oggi predomina il concetto “to know more and more about less and less”. Il sapere sempre di più su settori sempre più limitati costruisce un professionista super-esperto di aspetti parziali o minimali, talora molecolari della patologia. Una crescente distanza dalle dimensioni della persona nella sua totalità[1].
D’altronde lo sviluppo rapido e continuo delle diverse specializzazioni si rende necessario per poter far fronte all’aumento delle conoscenze e alla tecnologia sempre più sofisticata. Sulla base di dati recenti risulta che esistono 158 specializzazioni e sottospecializzazioni negli Stati Uniti, 67 in Canada, 55 in Italia, 52 in Francia, 97 nel Regno Unito [2].
La cultura tecnologica ha specializzato i saperi, ma spesso ha “frammentato” l’identità del paziente e le relazioni interpersonali tra chi cura e chi è curato.
Gli studenti sono sollecitati ad acquisire i titoli necessari per poter accedere ad una scuola di specializzazione, investendo il loro tempo in tirocini specifici, dedicandosi maggiormente a determinati esami, cercando in tutti i modi di collaborare all’attività scientifica di riferimento.
Di fronte all’affermarsi di una medicina basata sull’evidenza, che centra l’attenzione su prove di efficacia, su trial clinici randomizzati condotti su grandi casistiche di pazienti, sul contenimento dei costi, lo studente rischia di perdere, o di non acquisire mai, la capacità di guardare il malato nel suo insieme, e viene sollecitato verso un approccio di settore che pone il dettaglio al centro, dimenticando di dare senso e significato al sistema in cui quel dettaglio si innesta. Più o meno volontariamente non si permette allo studente di imparare a guardare il malato nella sua completezza e nella sua complessità.
Il ruolo del docente
Quale potrebbe essere l’apporto di chi ha la responsabilità della formazione? Non soltanto quello di fornire nozioni, che del resto si possono reperire in abbondanza su riviste, libri di testo, cd, tutorial, ecc. Spesso, tra l’altro, le nozioni apprese possono avere una scarsa correlazione con quanto riferisce il paziente che ci si trova davanti: i sintomi elencati nei manuali non sono sempre trasferibili automaticamente al quadro clinico. Il contributo del formatore è anche di aiutare a comprendere ed elaborare quanto appreso di fronte a quel singolo paziente in quel momento della sua storia di vita; in tal modo la pratica della professione non corre il rischio di diventare un insieme di automatismi – ogni paziente è uguale a tanti altri – ma si rivela creativa, sempre nuova e ricca di significato.
Più che trasmettere dati quindi, si è chiamati a “formare”, a fornire quell’aspetto in più, che va al di là di quello che normalmente compare nei libri di testo, anche per favorire il ragionamento clinico.
Del resto, sta emergendo anche in letteratura l’importanza del cosiddetto “fattore soggettivo”, che si potrebbe definire come quell’elemento che riporta all’unicità di ogni paziente. Porre attenzione al fattore soggettivo aiuta il passaggio dalla capacità analitica della specializzazione alla capacità sintetica di ricondurre il sintomo alla prospettiva globale di quel paziente in quel preciso momento.
Ma non è facile il ruolo di chi fa il docente. I diversi specialisti che si dedicano ad una forma di insegnamento in genere possiedono una preparazione approssimativa a questo ruolo[3]. Spesso devono la loro bravura sul campo essenzialmente alla loro esperienza e al loro intuito, a prescindere da qualsiasi tipo di preparazione formale.
In che modo è possibile colmare questo gap tra la preparazione tecnica e il “rendimento” di un docente? Un metodo è quello di considerare il processo di apprendimento dello studente come un’esperienza umana - parte fondamentale del curriculum - e l’insegnamento come una forma di relazione interpersonale (basata sul coinvolgimento del docente e sul suo desiderio di rendersi utile ai suoi allievi). Per questo, come ciascuno ha il proprio stile nelle relazioni interpersonali, così anche lo stile di insegnamento non si può limitare a comportamenti stereotipati, ma ciascun docente avrà il proprio stile: d’altra parte molto dipende anche dallo studente che ha di fronte, dalla sua voglia e dal suo sforzo per apprendere, dalle sue esigenze e priorità.
L’essere bravi in campo didattico è frutto di più fattori, ma forse quello più importante è un interesse sincero e profondo nell’aiutare i propri studenti nel processo di apprendimento [4].
L’aiuto principale consiste nel trasmettere una convinzione, che deve permeare tutta la vita professionale: avere sempre presente che ogni domanda di cura contiene non soltanto una richiesta di aiuto tecnico in vista del recupero della salute, ma anche una esigenza di relazione. Ignorare questa dimensione, significherebbe ridurre la medicina ad applicazione di una tecnica, trasformando il rapporto tra l’operatore e il paziente in una prestazione di servizi, dimenticando che è in primo luogo l’incontro con una persona[5]. La qualità del colloquio clinico dipende certamente dall’applicazione di conoscenze scientifiche o abilità comunicative da parte dell’operatore, ma anche dalla sua capacità di entrare nel vissuto del paziente, dal suo impegno etico e dal sentirsi responsabile verso l’altro [6].
Però, solo se il docente vive la sua professione in questo modo, potrà essere in grado di trasmetterlo ai suoi studenti. L’obiettivo è, dunque, quello di favorire nello studente un’integrazione tra competenza professionale e autenticità personale.
In questa prospettiva, penso sia determinante un atteggiamento, che del resto vale universalmente: cercare sempre di mettere in rilievo il positivo dell'altro. È sul positivo che si costruisce un rapporto valido e duraturo. Mettendo in evidenza il positivo che è in tutti, l'altro si sente valorizzato e cerca di dare il meglio di sé.
E’ evidente che il reale interesse per il benessere dei pazienti non si può imparare se non attraverso l’esempio. E ciò è confermato, in negativo, anche dai dati di ricerca: l’ostacolo principale nella formazione si è rivelato proprio il comportamento non professionale dei formatori [7].
In effetti, si corre il rischio di rendere insofferenti gli studenti di fronte a termini usati di abitudine come empatia, comunicazione efficace, ecc., se diventano quasi parole “trigger”, avulse dalla pratica professionale e svuotate del loro vero significato, soprattutto se non vissute nel quotidiano professionale[8].
Questi atteggiamenti dei formatori influiscono negativamente sul curriculum “nascosto”, definito come “ciò che noi realmente facciamo nella nostra pratica quotidiana coi pazienti e coi colleghi e non quello che diciamo che dovremmo fare quando saliamo in cattedra nelle aule di lezione”[9].
In tempi recenti, sono entrati nella formazione biomedica aspetti prima non considerati. La letteratura scientifica pubblica studi riguardanti argomenti come la relazione e la comunicazione con il paziente, la risposta soggettiva alle terapie rispetto alla casistica anonima, la dimensione spirituale nella cura, il “clima terapeutico” all’interno dell’équipe, ecc.
Stanno emergendo altri approcci e modelli dell’agire clinico: Medicina Narrativa [10], Slow Medicine, Patient-Centered Medicine ed altre ancora. Pur con varie differenziazioni, richiamano alla necessità di coniugare la prospettiva del professionista con quella del paziente, dei suoi valori, del suo vissuto, del suo gruppo familiare e sociale di riferimento. La narrazione della malattia non è solo la descrizione di un processo patologico, ma della vita di uno specifico essere umano in una particolare situazione[11]. Come strada per risolvere il gap tra l’obiettività dell’EBM e il recupero della soggettività della NBM, si è proposta una forma integrata delle due, la cosiddetta Narrative Evidence Based Medicine (NEBM), che dovrebbe riuscire a conciliare i due aspetti.
Ancora, altre recenti acquisizioni stanno entrando - anche se lentamente - come requisiti da inserire nella formazione e che riguardano gli aspetti umanistici della medicina. Si richiede cioè di integrare la conoscenza scientifica con la conoscenza umanistica, al di là della dimensione personale, e cioè
con tematiche di salute pubblica, di prospettive internazionali della medicina. Si avverte la necessità crescente di inserire nel curriculum – in modo consapevole e non formale e non a dosi omeopatiche – le scienze umane: antropologia, etica, sociologia, filosofia della scienza, storia della medicina, ecc. Quelle che gli anglosassoni definiscono Medical Humanities.
Da sottolineare che il British Medical Journal ha iniziato quest’anno la pubblicazione di una rivista proprio con questo titolo.
Ma tuttora in genere si distingue nel curriculum degli studi tra materie scientifiche fondamentali, (hard) di forte impatto accademico, e materie umanistiche (soft), considerate quasi non pienamente degne di appartenere all’olimpo scientifico[12]. E l’insegnamento rimane ancora in gran parte concentrato sulla biologia del corpo, basato su postulati di normalità anatomica e fisiologica di un uomo astratto e immutevole che nella realtà non esiste[13].
Un modello di questo tipo fa sì che l’impatto dei determinanti sociali sulla salute della popolazione possono essere ignorati, nonostante sia ampiamente dimostrato che il benessere sanitario dipende anche, se non soprattutto, da determinanti che di regola sono ritenuti estranei o poco influenti: la cultura, la condizione socioeconomica (che a sua volta influenza i comportamenti e gli stili di vita) e l’ambiente, inteso come ecosistema.
E allora, si può rischiare di fermarsi al micobatterio di Koch come causa della tubercolosi, senza pensare che, a monte, la malattia nasce dalla malnutrizione, dal sovraffollamento abitativo, dall’ambiente malsano. In questo modo lo sguardo dello studente non si spingerà lungo la catena eziologica che dal malato arriva fino alle “cause delle cause” della sua condizione all’interno del sistema sociale, svelandone le responsabilità, ma si fermerà ben prima di doverlo mettere in discussione[14].
La giustizia sociale, definita nel titolo di questo articolo come il cuore dell’educazione medica[15], oltre ad assicurare l’equità nell’accesso, nella qualità delle cure e il diritto alla salute per tutti, dovrebbe avere come obiettivo anche una professionalità socialmente consapevole a livello personale, a partire da se stessi, come docenti.
Un passo del formatore può essere anche semplicemente essere capaci di dire “non lo so”, o di consultare un libro di testo con lo studente, di interrompere una lezione accuratamente preparata, per fare emergere i bisogni espressi dagli studenti e accettare le critiche e le proposte. Può significare consentire agli studenti e agli specializzandi di dare un contributo reale alla costruzione del curriculum o al percorso di un tirocinio.
La giustizia sociale può venire insegnata, oltre che introducendo nel curriculum gli aspetti sociali della medicina, cominciando a viverla e ad applicarla nel microcosmo dell’interazione diretta tra docenti e studenti, responsabilizzando gli studenti, facilitando un ambiente in cui si può riflettere criticamente su questioni mediche, sul ruolo sociale della professione sanitaria, sul contributo che i futuri professionisti possono dare per la salute di una popolazione.
E’ importante infondere questa consapevolezza, tenendo conto del fatto che, quando si migliora lo stato di salute della popolazione, specialmente delle classi e dei popoli più svantaggiati, si può offrire anche un contributo di rilievo al progresso ed al mantenimento della pace sociale ed internazionale [16], [17], [18].
Per affrontare le disuguaglianze sanitarie in corso, la formazione medica deve aiutare gli studenti a diventare esperti non solo nella gestione biomedica delle malattie, ma anche nell’identificare e affrontare i determinanti sociali e strutturali della vita quotidiana dei pazienti[19].
Agire in questa prospettiva può significare “non formare un laureato portatore di un titolo senza competenza, ma un professionista preparato e pronto a essere efficace nella realtà sociale che gli si affida” [20].
Un’ultima osservazione. La medicina di oggi richiede una nuova sfida. Non sembra più questo il tempo del docente quale maestro che da solo fonda una “scuola” per così dire, quasi una persona con un “carisma”, come si verificava tempo fa. La complessità derivante dalle tecnologie applicate alla medicina, dalle conoscenze e scoperte che si susseguono a ritmo incalzante richiede necessariamente una nuova competenza e cioè la capacità di saper lavorare insieme, capacità che non si improvvisa né si può dare per scontata.
Oggi si sottolinea sempre più il team di cura, il lavoro in équipe, la multidisciplinarietà.
Ma siamo formati, sia come studenti che come docenti, a questo?
Il processo formativo spesso è ancora rivolto più ad uno svolgimento “autonomo” della professione: di conseguenza nei diversi luoghi assistenziali a volte viene in evidenza piuttosto l’individualismo, il corporativismo, la difesa del proprio ruolo, l’obiettivo della carriera anche a scapito degli altri colleghi.
E non basta trovarsi ad interagire nello stesso ambiente di lavoro per creare il team, il lavoro in équipe: bisogna perseguirlo attivamente.
Il docente può infondere entusiasmo, passione, far scoprire motivazioni, ma lui stesso può ricevere altrettanto dallo studente, per cui si crea una reciprocità. Da parte sua, lo studente può stimolare il docente a tenersi più aggiornato per l’aspetto strettamente clinico-scientifico, ma anche ad essere più bravo per l’aspetto etico-deontologico. Le idealità si possono offuscare con il passare del tempo, con il lavoro a volte logorante. Quante volte mi sono sentita interpellata proprio dagli studenti o dai giovani professionisti, messi in crisi di fronte a comportamenti scorretti o a prassi non trasparenti.
Ci troviamo tutti, sia docenti che studenti, specializzandi, giovani professionisti, dentro diversi sistemi - accademici, sanitari, istituzionali - che a volte sembrano incentrati sulla struttura, più che sulle persone per cui in realtà la stessa struttura è stata creata. Può sembrare impossibile agire per un cambiamento delle varie organizzazioni. Ma forse dovremmo ricordare che ognuno di questi sistemi è formato da persone.
Se vogliamo dare un contributo in vista di una possibile trasformazione, un primo passo potrebbe essere quello di cercare un dialogo con le persone che vi lavorano: insomma, puntare alla singola persona, qualunque ruolo ricopra. Non sembra forse così semplice né così immediato da realizzare.
Certo è che il passo di uscire da sé per vivere l’altro, per condividere le sue difficoltà, per cogliere le sue aspettative, suscita potenzialità inaspettate, può generare un rapporto “che va e che torna”. E spesso è questo “ritorno” che fa riacquistare serenità, ritrovare il senso del nostro agire, scoprire possibili risposte. Così avviene il salto di qualità: la reciprocità può trasformare ogni componente del mondo sanitario - operatore o paziente - ogni componente del mondo accademico - studente o docente - in soggetto, in protagonista del cambiamento.
Quanto è importante il rapporto con il paziente: spesso si avverte di ricevere molto più di quanto si dà. Come ho sperimentato io stessa – ma ognuno di noi potrebbe riportare la stessa esperienza – la vita professionale è intessuta di tanti momenti significativi nei quali ci si sente “plasmati”, a volte “sanati” nelle relazioni stabilite con il paziente, in una condivisione di sospensioni, di momenti dolorosi, di nuove speranze, che sono arricchenti umanamente, che aiutano a rimettere a fuoco gli aspetti essenziali non solo della professione, ma della stessa esistenza.
è necessario che non solo i docenti o i tutor, ma tutte le diverse figure coinvolte lo perseguano attivamente. E anche i pazienti lo avvertono, con indubbi vantaggi sui risultati di cura, oltre che sul clima relazionale.
E’ evidente che sono necessarie energie, motivazioni, determinazione per affrontare le difficoltà fuori e dentro di sé, per trovare la strada per superarle.
Flavia Caretta
[1]Cardinale E., Ripensare la Facoltà di Medicina tra vecchie e nuove sfide formative. Medicina e Chirurgia – Quaderni delle Conferenze Permanenti delle Facoltà di Medicina e Chirurgia. 54, 2012, pp. 2399-2406. Doi: 10.4425/medchir2012-54-7
[2] Lenzi A., 2012
[3]Miller G.E., Educating Medical Teachers, Cambridge, MA, Harvard University Press, 1980
[4] Holcomb JD, Gardner AE, Improving Teaching in Medical Schools, Springfield IL, Charles C. Thomas Publishing, 1973
[5] Russo M.T., La ferita di Chirone. Itinerari di antropologia ed etica in medicina, Vita e Pensiero, Milano 2006, p. 89.
[6] Frank A.W. Ethics as process and practice. InternMed J 2004; 34: 355-7.
[7] Brainard A.H., Brislen H. C., Learning Professionalism: A View from the Trenches, Academic Medicine 2007; 82:1010–1014.
[8] Cfr. Daniel Marchalik, The art of medicine. Saving the professionalism course. www.thelancet.com Vol 385 June 13, 2015
[9] Inui T.S., A flag in the wind: educating for professionalism in medicine. Washington: Association of American Medical Colleges 2003
[10]Kalitzkus V., Matthiessen PF., Narrative-based medicine: potential, pitfalls, and practice. Perm J. 2009;13:80-6.
[11]Weizsäcker Viktor von, Filosofia della medicina, Guerini e Associati, 1996, p. 103
[12]Stefanini A., Salute Internazionale, 22 aprile 2014 [http://www.saluteinternazionale].
[13] Saracci R., “Capovolgere” l’insegnamento della medicina, ieri e oggi. Recenti Prog Med 2014; 105: 363-365
[14] Maccacaro GA. Una facoltà di medicina capovolta. Intervista pubblicata su Tempo Medico, novembre 1971, ristampata in G.A. Maccacaro, Per una medicina da rinnovare, Scritti 1966-1976, Feltrinelli, Milano, 1979, pp. 377-382, p. 377.
[15]Hixon A.L., Yamada S., Farmer P.E., Maskarinec G.G. Social justice: The heart of medical education. Social Medicine (www.socialmedicine.info) 2013;7(3):161-168
[16] Horton R. The occupied Palestinian territory: peace, justice, and health. Lancet 2009; 373: 784-788
[17]McKee M et al. Health systems, health, and wealth: a European perspective. Lancet 2009; 373: 349–51
[18] MacQueen, Graeme, and Joanna Santa-Barbara. “Peace Building through Health Initiatives.” Ed. Anthony B Zwi. BMJ : British Medical Journal 321.7256 (2000): 293–296. Print.
[19]Ambrose A.J.A., January M. Andaya J.M., Seiji Yamada M.S., Maskarinec G.G., Social Justice in Medical Education: Strengths and Challenges of a Student-Driven Social Justice Curriculum. Hawaii J Med Public Health. 2014;73(8):244-50
[20]Cfr. Maccacaro, idem, p. 377