Le interazioni medico-paziente costituiscono un fenomeno sociale complesso in cui entrambi i partecipanti intervengono con aspettative reciproche. All’interno di questa trama relazionale il processo comunicativo può influenzare, in modo rilevante, la soddisfazione sia del paziente, in relazione alla visita medica, all’accettazione delle terapie e alla riduzione delle sue preoccupazioni, che dell’operatore in termini di successo del trattamento.
Naturalmente questi scambi comunicativi sono, a loro volta, influenzati da una serie di variabili legate sia alle caratteristiche personali del medico, sia alle circostanze specifiche in cui si svolge l’interazione. In particolare, le modalità con cui vengono trasmesse le informazioni al paziente, la quantità di tempo dedicato alle spiegazioni da fornire, la chiarezza espositiva, la semplicità lessicale sono fattori che incidono sul paziente sia in merito alla comprensione delle sue condizioni di salute/malattia, sia alla sua partecipazione, più o meno proattiva, alle procedure terapeutiche.
Queste considerazioni valgono ancor più nell’ambito della rianimazione e terapia intensiva, dove la criticità delle condizioni cliniche si interseca con il dramma umano dei familiari. In quel caso la comunicazione assume una valenza particolare, creando un complesso rapporto medico-paziente-famiglia.
Convenzionalmente, la caratteristica più significativa dell’interazione medico-paziente risiede nell’asimmetria del rapporto, intesa come disuguaglianza di ruolo e di status in una distribuzione disuguale del “potere”, sia psicologico che operativo.
Questa asimmetria può essere ricondotta a due aspetti: contenuto e compiti dell’interazione. Infatti al paziente spetta esporre i suoi sintomi, rispondere alle domande, fornire dettagli sulla sua condizione di salute e, infine, accettare le decisioni del medico. Quest’ultimo ascolta, definisce una diagnosi e un trattamento. Questa distribuzione di compiti fa sì che la dominanza interattiva sia considerata “naturale” e, purtroppo, spesso “asettica” e scarsamente partecipativa. Lo scambio di informazioni può essere ostacolato da fattori diversi, quali le resistenze del paziente, lo stile assertivo del medico, la scarsa attenzione agli aspetti impliciti e non verbali della comunicazione, la simbologia e il contesto ambientale.
Per questa ragione un clima “accogliente”, di condivisione e fraternità, una scelta lessicale semplice, scevra da elementi tecnici e altamente specialistici, l’informalità della conversazione dovrebbero contribuire a modificare il tradizionale paradigma che considera due poli distinti: il medico come l’esperto e il paziente come il passivo destinatario della cura, trascurando invece di frapporre tra i due poli l’elemento fondamentale: l’umanità. Occorre comunque considerare che la fase più delicata e importante è fornire tutte le spiegazioni possibili (al paziente e ai familiari), che debbono essere ampie, dettagliate e molto chiare, senza trascurare di lasciare uno spazio per porre domande. Questa interlocuzione contribuisce a far acquisire al paziente un potere di negoziazione nella relazione determinando una dimensione di accoglienza, rassicurazione e, di conseguenza, condivisione.
È importante tenere presente che il comportamento comunicativo dell’operatore, sia verbale che non verbale, e le modalità di gestione del colloquio devono essere coerenti, per evitare eventuali contromessaggi o messaggi di disconferma delle informazioni già acquisite.
Per scendere sul piano reale, vorrei ricordare due episodi di vita vissuta.
Nel 1991 ebbi a trattare nel mio reparto di allora Enzo Aprea, giornalista e scrittore, colpito dalle complicanze di una grave forma di morbo di Burger, da cui era affetto. La malattia, anni prima, gli aveva portato via entrambe le gambe e le braccia, ma non la sua lucidità e dignità, la sua speranza nel futuro, il gusto per la vita.
Il 28 luglio, dopo diversi giorni di ricovero, Enzo morì, lasciandomi un grande messaggio: ciò che conta è il mondo che c’è dentro gli occhi di ciascuno di noi. Non ho mai smesso di cercare quel mondo negli occhi dei miei pazienti.
La vita quotidiana in un reparto di rianimazione ti pone spesso di fronte alla necessità di chiedere uno straordinario e terribile atto d’amore: la donazione degli organi di un proprio caro in morte cerebrale.
Mai come in questo caso, l’azione congiunta di un team di medici e infermieri assume un significato cogente. Solo la partecipazione umana, la comprensione dei sentimenti può trasformare un dramma lacerante nel più grande atto di fraternità. Non nel comportamento di un singolo medico, ma nell’attitudine dell’intero reparto e nella sua capacità di comunicare e “alleviare” risiede il successo di una così difficile richiesta e la possibilità di offrire un senso al dolore.
di Massimo Antonelli
i medici si raccontano