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Come diventai oncologo

Una mattina del 1960 volai a Montreal, grazie a una borsa di studio, frequentai il Santa Cabrini Hospital. Fu un’esperienza positiva e non solo per la mia attività professionale. I colleghi furono gentili e disponibili, ma furono soprattutto quelle sante donne delle suore ad aiutarmi nelle prime settimane. Così come la loro fondatrice aveva preso a cuore l’assistenza agli emigrati, loro presero a cuore questo giovane medico emigrante e mi insegnarono non solo a parlare un inglese corretto e fluente, ma anche che l’assistenza ai malati deve essere sia tecnica che umana… e soprattutto a colloquiare e ascoltare i pazienti…

Dopo 7 mesi, desideravo proseguire la mia esperienza in terra americana e i colleghi canadesi mi segnalarono la possibilità di ottenere una borsa di studio presso la Divisione di chemioterapia del Memorial Sloan Kettering Cancer Center di New York, diretta da David A. Karnofsky, colui che da tutti è considerato il fondatore della moderna medicina oncologica.

Così fu per caso che diventai oncologo e da quel luglio 1961 l’oncologia è diventata la mia vita e la maggior parte di questa esistenza l’ho trascorsa tra il malati dell’Istituto Tumori di Milano, sempre cercando di migliorare le mie conoscenze sul cancro e offrire terapie sempre più efficaci.

Sono orgoglioso di essere stato un allievo del grande Karnofsky. Mi colpì profondamente il suo comportamento… era sempre disponibile con noi giovani medici… anche con i pazienti e i loro familiari era sempre disponibile e ha insegnato anche a noi giovani oncologi a trattare con quella dignità con cui vanno trattate tutte le persone, a spiegare loro con parole comprensibili diagnosi e programmi di terapia, a farne i nostri alleati nella guerra contro il cancro.

Nell’atrio del Memorial C. Center campeggia una scritta: «Entro queste mura pochi lavorano incessantemente perché molti possano vivere». Tutti credevano a queste parole e io mi unii a loro.
Alla fine del 1964 rientrai definitivamente in Italia, ma a Milano si poteva e si doveva fare qualcosa di più per gli ammalati… Un po’ irruente com’era e com’è oggi il mio carattere, dissi a Bucalossi che la terapia dei tumori non era solo chirurgica e radioterapica e che l’Istituto doveva qualificarsi anche per la terapia medica, se voleva diventare un vero centro di riferimento… Sarebbe stato opportuno creare un reparto di chemioterapia clinica.

Qualche tempo dopo, lungo per me, ma breve per lui, mi affidò, il 1° settembre, la responsabilità di un piccolo reparto, l’embrione di quello che qualche anno più tardi, nel 1968, diverrà la divisione di oncologia medica, la prima creata in Italia.

Fino al 1995 sono anni di grandissimo impegno, formazione dell’équipe, uno straordinario gruppo di ricercatori incessantemente impegnati e diretti dal dottor Bonadonna, grandi soddisfazioni e massimi riconoscimenti internazionali. Oltre 500 le pubblicazioni. Poi il 25 ottobre 1995 un ictus e l’inizio di un lungo cammino per alleviarne gli esiti, riprendere a camminare e a comunicare, che il dottor Bonadonna racconta in un libro di divulgazione intitolato Coraggio, ricominciamo. Tornare alla vita dopo un ictus: un medico racconta (2005) e nel libro Dall’altra parte (2006), dove tre medici gravemente ammalati raccontano la loro storia e propongono di rifare una sanità che curi davvero.

Da padre ho pensato che potevo dare ancora qualcosa ai miei ragazzi, da medico ho immaginato che avrei potuto completare un percorso e raccontare perfino come si sta dall’altra parte. Parlare ai tanti malati senza voce di un’esperienza dura e faticosa, una riconquista della vita…

I tre professori discutevano della mia condizione, mentre io non potevo intervenire, non avevo voce in capitolo. Il fatto non è sorprendente, eppure parlavano di un malato che è anche medico, e io mi aspettavo che mi trattassero anche come camice bianco, visto che sarei stato in grado di capire quello che dicevano. Invece pronunciarono poche parole tra di loro, a bassa voce, quasi stessero concordando un verdetto di fronte all’imputato. Sono stato affidato a specialisti espertissimi, pensai, quand’anche non specializzati in buone relazioni con il paziente… ma se viene a mancare la mia determinazione, addio recupero… loro ci metteranno tutta la competenza, io tutta la caparbietà. Dovevo ad ogni costo reagire a tante avversità: emiparesi, afasia, aprassia, termini che sembrano corrispondere, e forse corrispondono, ad altrettante calamità naturali.

Si può vincere una paura con un gesto. Il nodo della cravatta, per esempio… avrei scommesso che non ce la facevo. Invece è venuto al primo colpo. È stato come scalare una montagna. Dopo l’ictus ci sono gesti che sembrano appartenere al passato, ritrovarli vuol dire riprendersi un pezzo di noi. La cravatta ogni mattina è il distintivo che metto per dire che va tutto bene. Un semaforo verde che mi aiuta a dire: la mia volontà è più forte della rassegnazione… c’è ancora qualcosa che possiamo fare per aiutare gli altri, ed è questo il modo migliore per sentirsi vivi.

Ma la paura di non farcela mette a dura prova un altro legame, quello con il Padreterno… poi la risposta arriva, chissà da dove, da qualche zona profonda che nasconde risorse inaspettate: non lamentarti, scegli un obiettivo, dai battaglia. Sì, a quello ho subito pensato, a una singolar tenzone con la malattia…

Health Dialogue Culture

Vuole contribuire all'elaborazione di una antropologia medica che si ispira ai principi contenuti nella spiritualità dell'unità, che anima il Movimento dei Focolari e alle esperienze realizzate in vari Paesi in questo campo.


 

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