Tra umanesimo e tecnologia. Nel mio lavoro sono stato sempre particolarmente attratto dal reparto e dalla sala operatoria. Come un tempo la “bottega”, era il luogo dove gli allievi guardavano lavorare i Maestri e imparavano i segreti del mestiere, così il reparto e la sala operatoria sono la “bottega” del chirurgo: è lì che si impara quello che non si trova sui libri.
La chirurgia non è una scienza esatta, al contrario essa è dominata dall’individualità e dalla variabilità. Di fronte a un malato è necessario cercare di scoprire che cosa lo caratterizza rendendolo diverso da un altro, perché è la scoperta di questo particolare che permette di ritagliare sul singolo il trattamento migliore, qualche volta diverso da quello dettato dalla norma.
In reparto si capisce che ogni malato rappresenta una storia a sé: sono storie che spesso lasciano sgomenti e alle quali è difficile trovare risposte; purtroppo non esistono corsi all’università che insegnino come parlare a un malato grave, o come spiegare cosa sta succedendo a dei familiari che non riescono a capire perché la loro vita stia così improvvisamente cambiando.
A dei parenti increduli sembra impossibile che lo smisurato progresso tecnologico della chirurgia non permetta di fare di più. Purtroppo la verità è che la tecnica, con la perfezione delle sue immagini e con i suoi tanti parametri di laboratorio, ci ha aperto delle finestre che illuminano la profondità del corpo, ma, diceva un vecchio chirurgo appassionato di mare, noi chirurghi restiamo come dei marinai che scrutano il colore e il movimento dell’acqua per scoprire cosa c’è nel fondo. L’essere umano non si riduce a delle immagini e a dei parametri: l’approccio all’uomo malato passerà sempre attraverso la semeiotica, la scienza dei segni e dei sintomi, l’alfabeto della medicina, e attraverso il ragionamento clinico.
In reparto si impara poi che il chirurgo non deve limitarsi alla diagnosi e al trattamento, ma deve anche saper spiegare al malato la sua malattia e saper rispondere al suo desiderio di conoscere la verità. Non è facile: forse è per questo che un tempo si diceva che la chirurgia era un’arte; un eminente clinico dell’Ottocento concludeva le sue lezioni raccontando agli studenti: «Quando avrete conosciuto la scienza medica, guardatevi dal credervi medici: non è da tutti essere degli artisti».
Dopo il reparto, la sala operatoria. In sala operatoria si arriva sempre con emozione; per lo studente o per lo specializzando che sogna di fare il chirurgo, è il momento di scoprire se la scelta è quella giusta. La chirurgia più che doti eccezionali, richiede attitudini particolari.
La cosa più difficile non è quella di fare un intervento straordinario, ma di riuscire a farlo senza complicanze e senza stravolgere la qualità di vita del paziente. Ho sempre pensato alla singolarità dell’espressione utilizzata spesso nei nostri congressi, di mortalità e di morbilità «accettabili». Ma accettabili da chi? Certamente non dal malato...
In sala operatoria ci si può trovare di fronte a situazioni particolarmente complesse nelle quali non è facile scegliere tra un atteggiamento aggressivo, il cosiddetto “coraggio dell’audacia”, e il conforto di una rinuncia ad andare avanti: in quei momenti, anche se la sala operatoria è piena e al tavolo si percepisce la presenza fisica delle persone vicine, il chirurgo è solo e deve decidere da solo. Allora penso a tante cose: prima di tutto mi chiedo cosa vorrei che venisse fatto a me in una situazione analoga; poi cerco di immaginare cosa vorrebbe il paziente. Quello che mi ha sempre aiutato a prendere con serenità decisioni, dettate a volte più da considerazioni umane che da freddi criteri scientifici, è stato il rapporto che avevo stabilito con lui e con la sua famiglia.
In sala operatoria si diventa saggi e per noi la saggezza porta alla prudenza e la prudenza è frutto dell’esperienza e purtroppo l’esperienza si arricchisce dopo che si è sofferto per la sua mancanza.
Ma l’esperienza non basta. Per essere un buon chirurgo, bisogna essere un buon medico, bisogna conoscere il malato e la fisiologia dell’organo che si opera; e poi, accanto al rigore clinico, bisogna apprendere il rigore del ragionamento scientifico, convincersi della necessità di seguire le regole del metodo, bisogna continuare a studiare e infine bisogna avere dei buoni Maestri.
La responsabilità dei professori nella formazione dei giovani è enorme: abbiamo il terribile privilegio di rappresentare dei modelli e di essere determinanti in molte delle scelte che i nostri studenti faranno. È successo anche a noi. E noi per primi sappiamo quanto ha influito nella decisione di dedicarci a una particolare specializzazione il fascino umano, prima ancora che professionale, di un professore capace di trasmetterci “passione” per la sua materia e di affascinarci con la sua personalità.
Quando ho cominciato a frequentare per la prima volta un reparto di chirurgia ho incontrato il prof. Picciocchi: è lui che mi ha guidato nei miei primi passi.
Ho poi lavorato a lungo con il prof. Puglionisi, un chirurgo gentiluomo; la ricchezza del suo insegnamento spesso inapparente, è stata enorme; con lui ho imparato i principi del ragionamento scientifico, dalla clinica sono entrato nel mondo della ricerca e questo mi ha permesso di rendere più solide le basi della mia formazione.
Ho poi incontrato il prof. Bismuth. Da lui ero andato per imparare una chirurgia che allora, negli anni settanta, era all’inizio: la chirurgia del fegato. Fu una rivelazione; la ricchezza del suo insegnamento è stata per me incommensurabile. Da lui ho appreso il rigore del metodo applicato al gesto operatorio, alla logica clinica e al ragionamento scientifico.
Ho imparato che è impossibile per un chirurgo sapere tutto e saper far tutto e che è necessario dedicarsi ad un campo specifico della chirurgia, nel quale però tendere all’eccellenza; e ancora, ho imparato che per raggiungere certi livelli bisogna lavorare in équipe, insieme ad altri specialisti, ognuno esperto nel proprio campo, ma tutti uniti dagli stessi interessi scientifici.
Più passa il tempo e più sono convinto che sia questa la strada da seguire: la maggior parte dei pazienti che vedo al Policlinico “A. Gemelli”, o non è mai stata seriamente ammalata fino al momento del grande impatto con la Malattia, o ha già avuto lunghe e dolorose esperienze in altri ospedali. Questi malati cercano il centro di alta specializzazione dove sperano di trovare la “cura terziaria”, cioè quel livello speciale di terapia che richiede conoscenze particolari, competenze eccezionali, cooperazione fra specialisti e infine risorse ospedaliere che normalmente non si trovano altrove. È questo che ci verrà sempre più richiesto dal malato.
Permettetemi ora di tornare alla formazione del chirurgo. La prima cosa da imparare è il rigore nell’atto di operare: ogni intervento si compone di una serie di passaggi che si succedono l’uno all’altro secondo regole precise; un’operazione chirurgica ha la stessa necessità di ordine e di armonia di una composizione musicale. Un chirurgo deve quindi essere prima di tutto un buon operatore, ma non basta.
Le lunghe riflessioni al letto del malato e sulla sua cartella, la capacità di adattare l’intervento all’obiettivo che si vuole raggiungere e che varia in funzione di fattori individuali che bisogna cercare e analizzare prima di operare; e poi la vigilanza post-operatoria... è tutto questo che eleva il gesto della mano al rango di un’impresa della mente. Il gesto manuale del chirurgo, per quanto importante e preciso, scompare, non è che un mezzo attraverso cui raggiungere l’obiettivo: dopo la tattica, bisogna quindi imparare la strategia.
E ancora non basta.
Una qualità sopra le altre mi appare indispensabile nel nostro lavoro ed è il rispetto per il malato.
Credo che non si possa essere un buon chirurgo se non si prova davanti al malato questo forte sentimento che ci impone di fare per lui il meglio possibile e che ci rende degni della sua fiducia. Come non provare emozione, anche dopo tanti anni, di fronte ad una persona sconosciuta fino a pochi istanti prima che ci dice: «dottore, mi affido a lei, decida lei cosa è meglio per me...».
Quando parlo di rispetto, non intendo il rispetto formale, che è scontato, intendo quel sentimento forte e profondo per il malato che sì esprime in una serie di comportamenti concreti.
Il primo è rappresentato dal dovere di essere ben preparati; accarezzare una fronte e prendere una mano possono aiutare un trattamento efficace, ma non lo sostituiscono: bisogna fare entrambe le cose. E poi non basta quello che si è studiato, è necessario mantenersi aggiornati e mettere continuamente in discussione le proprie conoscenze: bisogna rassegnarsi, il chirurgo è uno studente a vita.
Il secondo comportamento concreto è rappresentato dal dovere di conoscere bene il malato; com’è possibile arrivare ad una diagnosi senza averlo interrogato, ascoltato, visitato? Non basta limitarsi ad esaminare delle radiografie, per quanto bene lo si possa fare, perché non sono le radiografie che poi dovremo operare.
Il terzo dovere è al momento della decisione terapeutica. «Non andare mai al di là di quello che sai fare» è uno degli insegnamenti che ho ricevuto e che si è maggiormente impresso nella mia mente. Un chirurgo non può essere padrone allo stesso modo di tutta la chirurgia: ognuno di noi sa quali sono gli interventi per i quali è più preparato o, come si usa dire, più “portato”. Quando ci si trova in un campo che non è quello della propria specializzazione, non c’è che da dirlo al paziente e indirizzarlo ad un altro collega che non sarà soltanto un amico, ma qualcuno che consideriamo il migliore in quel campo, qualcuno dal quale noi per primi ci faremmo operare.
Altre volte, la decisione terapeutica può invece essere quella di non operare, e allora bisogna dirlo con chiarezza al paziente che noi, da chirurghi, pensiamo che non debba essere operato.
In fondo, il rispetto dell’altro dovrebbe esserci in qualsiasi rapporto umano e ogni lavoro che perde la dimensione umana entra in crisi. Della chirurgia si dice spesso che è un’arte ed è stato detto che l’arte è bella quando la testa, le mani e il cuore lavorano insieme... ed è lo stesso per la chirurgia.
Certo, il lavoro del chirurgo non è semplice; per meritare la fiducia del malato sono necessarie tante qualità e il campo delle conoscenze è ormai talmente vasto che è difficile per una sola persona dominarlo tutto.
Settori della chirurgia, una volta molto limitati, hanno ormai raggiunto uno sviluppo tale da poter essere considerati delle vere specialità: gli esempi potrebbero essere tanti, ma permettetemi di fare quello della chirurgia che conosco meglio.
La cosa più utile per un malato con una patologia complessa del fegato e delle vie biliari, sarà, in futuro, quella di essere preso in cura non da un solo medico o da un solo chirurgo, ma da un’équipe di specialisti capaci di occuparsi con competenza di tutti gli aspetti della sua patologia. Non soltanto il chirurgo quindi, ma l’epatologo, l’oncologo, l’endoscopista e ancora l’anestesista, l’intensivista, il radiologo, l’anatomopatologo, e poi gli infermieri, tutti particolarmente dedicati a quella specialità. E di questa équipe dovranno far parte i ricercatori, il virologo, il genetista, l’epidemiologo, l’esperto di statistica, perché la ricerca sarà parte integrante del lavoro di gruppo.
È il modello di dipartimento “orizzontale”, multidisciplinare, che mette al centro di tutto il malato, non il medico!
Oggi il lavoro del chirurgo sta cambiando, non soltanto nelle tecniche che si utilizzano, ma anche nel modo di esercitarlo. Le preoccupazioni economiche che sono ormai dominanti nel campo della sanità e una certa cultura, che tende alla valutazione della quantità come indice di efficienza, ci allontanano dalle radici umanistiche della nostra formazione.
Il lavoro del medico viene giudicato in base alla produttività: si rischia di valutare meno la qualità rispetto alla quantità. Si esaminano tutti i dettagli del bilancio, ma non c’è una voce che si domandi come stanno questi pazienti. Si corre sempre di più per mantenersi competitivi, e si ha sempre meno tempo per il malato, per parlargli, ascoltarlo, essergli vicino, che è poi quello che si faceva un tempo e che in fondo ci viene richiesto anche oggi.
Noi professori non possiamo ignorare i problemi dell’economia sanitaria, né scaricarli su altri, al contrario: dobbiamo insegnare alle nuove generazioni che anche il nostro lavoro deve rispettare degli obiettivi economici, ma nello stesso tempo dobbiamo vigilare perché questi obiettivi non siano fine a se stessi, ma restino un mezzo per raggiungere un obiettivo differente, che è la vita.
di GENNARO NUZZO
La relazione: l'essenza dell'arte medica
i medici si raccontano