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Noi, la pandemia e il futuro che ci aspetta: a colloquio con il filosofo e sociologo francese conosciuto in tutto il mondo per i suoi studi sul "pensiero complesso"

Conosciuto in tutto il mondo per i suoi lavori sul “pensiero complesso”, Edgar Morin (pseudonimo di Edgar Nahoum) è nato l’8 luglio 1921 in una famiglia ebrea. Amante della poesia, negli ultimi decenni ha partecipato agli eventi più significativi della nostra storia, ha conosciuto il lutto — ha perso la madre quando aveva solo 10 anni — la guerra e numerose crisi politiche, economiche e sociali. Dall’inizio della pandemia di Covid-19, ha proposto una riflessione sulle lezioni di questa recente crisi, che ha gettato il mondo nell’incertezza, e sui cambiamenti necessari per edificare una società più giusta e fraterna. Ho avuto l’opportunità di incontrare, a Roma, un centenario sempre appassionato dell’umanità e delle sue vicissitudini, che ha conservato la capacità di meravigliarsi e di lasciarsi affascinare dalla realtà.

Che ne pensa della crisi attuale legata alla pandemia di covid-19 che interessa il mondo intero?

Questa pandemia a carattere virale ha suscitato un fenomeno mondiale multidimensionale che non riguarda solo la salute, ma anche la vita quotidiana, con i lockdown che hanno posto il problema del rapporto con il lavoro e hanno cambiato lo stile di vita che avevamo in precedenza. C’è anche il problema della crisi economica e di una crisi della globalizzazione che ha mostrato di non avere creato solidarietà internazionale.

Questa crisi obbliga a quello che io chiamo “un pensiero complesso”, capace di collegare aspetti diversi e di non separare quello sanitario da quello economico, piscologico, o addirittura religioso. Sono implicati tutti gli aspetti della vita umana. È quindi necessario un pensiero molto ampio, che non sia unilaterale, è un punto fondamentale.

Bisogna pure abbandonare un modo di pensare lineare che consisteva nell’avere l’impressione che la storia progredisse e che si potessero prevedere fin da ora gli anni 2030 o 2050, senza tener conto delle enormi incertezze. C’era il regno di un pensiero lineare, di un pensiero puramente quantitativo, che vedeva i problemi umani solo attraverso il calcolo, mentre il calcolo non capisce niente delle nostre emozioni e della nostra vera vita. Il modo di pensare di cui disponiamo non è perciò adeguato a pensare non solo il mondo e noi stessi, ma anche la pandemia.

Quale deve essere il cambiamento di paradigma?

È necessaria una riforma della conoscenza. Non bisogna solo cambiare vita, occorre anche cambiare via. Bisogna non solo rinunciare al consumo di oggetti futili, dal valore puramente immaginario, ma bisogna anche ritornare all’essenziale, a ciò che è umano, ossia le relazioni, lo stare insieme. C’è una riforma della vita che dovrebbe essere attuata e che, purtroppo, ancora non lo è. È necessaria una riforma politica. Bisogna introdurre il gigantesco problema ecologico nella politica: la lotta contro ogni forma d’inquinamento, contro il degrado del suolo, la distruzione della biodiversità e contro il cambiamento climatico. Tutto ciò può dare lavoro, mobilitare forze e creare un’economia che, tra l’altro, avrebbe un carattere sociale e farebbe regredire il potere enorme del profitto sul mondo di oggi. Abbiamo di fronte problemi enormi e la pandemia deve risvegliarci. Purtroppo non ci è ancora riuscita.

Lei ha osservato l’essere umano per decenni, le sue ombre e le sue luci. Crede nella sua capacità di ripensare il nostro modo di vivere, di consumare, ma anche d’interagire?

Un certo modo di consumare sta emergendo molto lentamente in seno a una piccola porzione della popolazione, con l’abbandono di tutto ciò che inquina, ma sta cominciando in forma sparsa. Non c’è una forza politica coerente che consenta di offrire questa prospettiva e di coinvolgere ampiamente le popolazioni. Siamo agli inizi esitanti di quella che potrebbe essere una riforma di vita.

Papa Francesco nei suoi auguri, in occasione del suo centenario, ha reso omaggio alla sua volontà di edificare una società più giusta e più umana. Quale sono i punti chiave per realizzarla?

Le premesse consistono nella presa di coscienza della comunanza di destino di tutti gli esseri umani nell’epoca della globalizzazione, ossia dei pericoli nucleari, dei pericoli della follia fanatica, del pericolo del dominio del profitto. L’umanità è in una fase della sua storia piena di pericoli e al tempo stesso piena di promesse tecniche o scientifiche. Ma persino le sue promesse hanno un duplice volto. Favoriscono l’idea, che ha dominato la civiltà occidentale, pessima a mio avviso, di dominare la natura e di dominare il mondo. E il transumanesimo riprende i concetti attuali della tecnica, dell’informatica, dell’intelligenza artificiale per creare un uomo cosiddetto immortale che dominerà il mondo e i pianeti. È una follia!

Oggi non bisogna fare l’uomo aumentato ma l’uomo migliorato, a partire delle risorse buone che ha in sé. Non siamo ancora a questo punto. La coscienza della comunanza di destino sarebbe un elemento fondamentale per andare verso un altro mondo perché, a quel punto, le nazioni potrebbero federarsi e si potrebbe giungere a quello che è un sogno, ma possibile, ossia la pace sulla terra. Esiste quindi un insieme di condizione che consentirebbe questo cammino. Bisogna continuare ad avanzare sì con problemi, con conflitti, ma facendo in modo che quelle che io chiamo le forze di Eros abbiano sempre più la meglio sulla forza di Polemos e di Thanatos. Occorre rinforzare Eros rispetto a Polemos e a Thanatos.

Lei ha costellato la sua vita di poesia. È stata la poesia ad aiutarla a superare le numerose prove che ha attraversato?

La poesia non consiste solo nei poemi che amo e che continuo a recitare, che mi sostengono e che sono importanti. C’è anche la poesia della vita. Colgo la verità profonda di quello che dicevano i surrealisti della poesia, che non è solo una cosa scritta ma una cosa vissuta. Nella mia concezione dell’umano, trovo che la nostra vita sia bipolarizzata tra prosa e poesia. La prosa sono le cose che facciamo per costrizione, che non ci piacciono, che facciamo per obbligo, per sopravvivere, mentre la poesia è vivere veramente, e vivere è dischiudersi, è comunicare, è ammirare, è meravigliarsi ed è gioire del piacere di una bella musica, come pure del piacere di una relazione amorosa, o di bel paesaggio o di una partita di calcio.

La poesia della vita permette sempre la comunione con gli altri o la comunione con il mondo, con le cose. Si dimentica spesso che ci sono tantissime persone che sono condannate alla prosa e che meriterebbero di poter accedere alla poesia. Io non ho mai cercato la felicità. La felicità è arrivata per caso, per un insieme di circostanze che all’inizio non avevo immaginato. E quella felicità è durata qualche mese o qualche anno, ma alla fine si è dissolta con la morte delle persone care. La felicità, rappresentata da quei periodi meravigliosi, non è duratura. Ma la poesia è qualcosa che si può coltivare tutta la vita e che dà una sensazione di felicità.

La bellezza salverà il mondo, suggerisce Dostoevskij. Lei pensa che la poesia possa salvare il mondo?

Salverà il mondo se verrà davvero applicata, perché ha in sé la parola bellezza.

A quali fonti possiamo attingere oggi per riacquistare la capacità di meravigliarci?

Le fonti sono molteplici perché riacquistare la capacità di meravigliarsi  viene da  fatto di vivere poeticamente. E ciò si può vivere anche attraverso le relazioni con gli altri, quando sono intense, aperte, piene di fraternità e di amore. Credo inoltre che occorra nutrirsi di cultura: di letteratura, di musica, di poesia, di belle arti. Le fonti sono quindi nelle nostra potenzialità di esseri umani che si manifesta fin dall’infanzia, con la capacità di meravigliarsi.

Il grande problema è che la vita presenta crudeltà, orrori. Quando si guarda, per esempio, a quello che sta accadendo oggi in Afghanistan non ci si può meravigliare, al contrario si prova un sentimento terribile. In questo momento in Francia si sta svolgendo il processo ai terroristi che hanno compiuto un massacro nella sala del Bataclan (e nelle terrazze di Parigi, come pure a Saint-Denis, ndr). È una cosa orribile che ti segna, anche se non senti il desiderio di vendetta, che io non ho mai sentito, ma provi una sensazione terribile. Ma se si è capaci di meravigliarsi, si attinge da lì la forza per ribellarsi contro queste crudeltà, questi orrori. Non bisogna quindi perdere la capacità di meravigliarsi.

Hélène Destombes – Città del Vaticano

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