Spiritualità e salute nella visione integrale dell’essere umano.
Quali valori nel quotidiano professionale?
La concezione di salute è fortemente condizionata dalla cultura. Oggi, soprattutto nei paesi occidentali, si propone un concetto di salute che assume soltanto i criteri di efficienza, di produttività, di forma fisica perfetta, di invecchiamento di successo, dimenticando altre dimensioni che fanno parte del benessere autentico della persona.
Introduzione
La concezione di salute è fortemente condizionata dalla cultura. Oggi, soprattutto nei paesi occidentali, si propone un concetto di salute che assume soltanto i criteri di efficienza, di produttività, di forma fisica perfetta, di invecchiamento di successo, dimenticando altre dimensioni che fanno parte del benessere autentico della persona [1].
A questa visione si viene sollecitati anche dai progressi nel campo della medicina. La medicina odierna si caratterizza per la possibilità di diagnosticare con certezza quasi assoluta una patologia nel corpo umano, ma anche per la presunta capacità di guarire: una sicurezza terapeutica che il medico non aveva mai prima pensato di possedere. Da qui un’esaltazione del potere della medicina, che può creare aspettative di onnipotenza. Nel contempo però, questa stessa medicina viene messa in discussione per la sua prospettiva spesso riduttiva. Infatti, la considerazione puramente scientifica della patologia tende a porre maggiore attenzione ai processi biologici, considerandoli in un’ottica sostanzialmente fisicistica, meccanicistica; si tratta in sintesi di un modello biomedico che considera la medicina semplicemente come una biologia applicata, che sembra ignorare la soggettività e l’unitarietà della persona.
E’ importante allora innanzitutto chiarire il significato di salute, considerandola in una precisa prospettiva antropologica.
Definizione di salute
Nella storia della medicina si sono sviluppati nel tempo concetti diversi di salute: da uno stato di salute definito solo come assenza di malattia, ad uno stato di salute definito come completo benessere. Più precisamente, l’OMS vari decenni orsono ha definito la salute come "Uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e non la semplice assenza dello stato di malattia o di infermità" (OMS, 1948). In anni successivi vi è stato un ripensamento e si è passati da un concetto di “stato” ad uno di “processo”.
Salute allora come risultato di un processo mirato a ritrovare continuamente un equilibrio dinamico all’interno di sé e con l’ambiente, per cercare di soddisfare i bisogni biologici, psichici, sociali, culturali, spirituali che si presentano nei diversi momenti.
La ricerca e il mantenimento della salute perciò comprendono la promozione della vita, la prevenzione, la riabilitazione e non soltanto la cura, richiedono la considerazione di tutti quei fattori (ambientali, culturali, sociali) che possono incidere sulla salute stessa. Ma ancora, vanno considerati gli elementi legati alla persona stessa: gli stili di vita, i comportamenti salutari, ma anche i valori spirituali, le convinzioni religiose.
La spiritualità infatti non è una dimensione fra tante, essa permea e dà significato a tutta l’esistenza umana. L’attenzione alla dimensione spirituale della persona, nella pratica medica e assistenziale in genere, è un tema sempre più presente su pubblicazioni e riviste scientifiche [2] [3] [4]: già nel 1997 in una prestigiosa rivista medica si afferma che la “spiritualità è il fattore dimenticato in medicina e si auspica che venga inserita nel curriculum degli studi di medicina” [5].
Salute, allora, è la capacità di gestire la propria situazione di vita, è sinonimo di accettazione interiore, di non abbandonarsi alla disperazione anche di fronte a gravi patologie. Salute significa guarigione interiore, cioè capacità di gestire una situazione di vita, anche quando il corpo si disgrega.
Salute non è solo la risultante di una somma algebrica di componenti psicofisiche o sociali, ma scaturisce da un bilancio globale della persona nel quale si devono considerare anche le componenti psicologiche e spirituali. Così, ad esempio, una persona malata potrà avere ricchezze affettive e risorse spirituali tali da costituirla in uno stato di salute relazionale-spirituale, pur non avendo una piena funzionalità fisica.
In questa prospettiva, la guarigione va intesa non come semplice restitutio del benessere precedente, non sempre possibile, ma come acquisizione di un nuovo equilibrio fisico, psichico, spirituale, che permette di raggiungere una nuova “integrità”.
Naturalmente, è necessario mettere in atto tutti i mezzi diagnostici e terapeutici disponibili per salvaguardare la salute e la vita. Quindi anche il campo della ricerca scientifica assume in questa prospettiva il suo pieno significato. Ancora, è fondamentale sostenere e stimolare la volontà di guarigione del paziente, valorizzando i risultati terapeutici o di riabilitazione, pur se limitati, o non completi: ma dal punto di vista del paziente, sono importanti.
Quali valori nel quotidiano professionale?
Come riuscire ad attuare nel quotidiano assistenziale atteggiamenti e comportamenti che sostengano il paziente nell’affrontare situazioni di malattia, nel collaborare al processo di cura? Quali valori possono essere di guida? Si può provare a delineare alcune modalità e strategie - già sperimentate nell’esperienza di molti medici e operatori sanitari in varie nazioni – ispirate al carisma di Chiara Lubich.
La personalizzazione dell’assistenza
Il punto di partenza e il punto di arrivo è la persona nella sua interezza: il valore che io assegno al paziente non è un qualcosa di teorico, di astratto, ma si traduce concretamente in atteggiamenti più o meno adeguati, più o meno rispettosi della sua dignità.
Personalizzare l’assistenza richiede di considerare unico ogni paziente e dargliene la sensazione. Ma come si può attuare questa modalità, quando ogni giorno si vedono decine di pazienti? Un modo sta nel considerare la persona che si ha di fronte come fosse la sola che si incontrerà nella giornata, senza pensare al paziente precedente o a quello che sta aspettando.
Riuscire a vivere il momento presente libera dalla fretta e da condizionamenti che potrebbero anche offuscare la decisione da prendere.
Un passo ulteriore può essere quello di considerare il paziente non tanto come un utente di servizi, ma come me stesso: un riferimento significativo per i cristiani è l’”ama il prossimo come te stesso”, ma lo stesso imperativo è richiesto in altre tradizioni. Ad esempio Gandhi affermava: "Tu ed io non siamo che una cosa sola. Non posso farti del male senza ferirmi".
Una tale considerazione comporta allora che non posso fare preferenze, distinzioni, ad esempio tra un paziente che collabora e uno no, tra paziente docile e paziente ipercritico, fra chi presenta patologie interessanti e chi invece ha patologie banali, povere di soddisfazione: devo partire dal presupposto che ogni paziente ha lo stesso diritto alla mia attenzione.
Prendere l’iniziativa nel rapporto con il paziente
E’ una affermazione che potrebbe sembrare ovvia: generalmente è l’operatore a fare il primo passo verso il paziente, ma non è sempre così. E’ difficile l’approccio con chi aggredisce con lamentele, rimproveri e lo è ancor più riuscire ad accoglierlo la volta successiva. Eppure l’operatore non può aspettarsi che il paziente sia lui per primo a comportarsi come un paziente “ideale”, collaborante, comprensivo della fatica e dello stress del lavoro assistenziale: sta a noi prendere l’iniziativa di un rapporto che gli faccia avvertire il nostro interessamento, la stima, la fiducia, il desiderio sincero di essergli di aiuto. Questo atteggiamento dell’operatore può facilitare un atteggiamento simile nel paziente per cui scaturisce una reciprocità, una sintonia di intenti, una reale “alleanza terapeutica”.
Il principio di reciprocità ha anche un fondamento scientifico nei processi neurofisiologici. Alcuni studi evidenziano, infatti, che nel momento in cui interagiamo con un’altra persona, nel nostro cervello prendono avvio meccanismi neuronali, in cui sarebbe coinvolta soprattutto una classe specifica di neuroni, i cosiddetti “mirror neurons”. Si determina così un legame funzionale, una sorta di adattamento reciproco tra i due cervelli che si connettono e si influenzano a vicenda.
Si è osservato che ognuno dei due cervelli può dare inizio all’interscambio, non è necessario che il segnale provenga da entrambi, ma una volta che una persona si “sintonizza”, le probabilità di un’intesa reciproca aumentano[6]. Sottolinea quindi l’importanza di fare il primo passo, di prendere l’iniziativa nei rapporti.
Il “farsi uno”
Se anche tutti i pazienti sono meritevoli di una stessa attenzione, è pur vero che ogni paziente è diverso dall’altro: è necessario allora cercare di comprendere in quale situazione di salute e in quale stato emotivo si trovi, al fine di instaurare una relazione adeguata e una comunicazione efficace.
Si è usato moltissimo in questi anni il termine empatia: si parla sempre più spesso di rapporto empatico, di operatori “orientati alla persona”, ecc. Qualche volta il rischio può essere quello di banalizzare, di svuotare dei contenuti questo termine, a volte abusato, limitandosi ad una cordialità di facciata con il paziente o ad atteggiamenti di cameratismo.
Un’espressione efficace potrebbe essere ‘farsi uno’, che dà il senso dell’entrare il più profondamente possibile nell’animo dell’altro, cercare di mettersi nella sua situazione, nei suoi panni, nella sua pelle. Capire veramente i suoi problemi, i suoi bisogni, per farsi carico dei suoi pesi, addossarsi le sue necessità, come le sue sofferenze [7].
Le tecniche di neuroimaging riescono oggi quasi a definire una mappa del nostro cervello sociale, cioè delle reti neuronali che si attivano e cooperano durante le interazioni sociali. Con esse, si è evidenziato che, di fronte ad una persona che soffre, si attivano automaticamente le stesse aree cerebrali nella persona che prova dolore e in chi le sta di fronte [8]. Quindi, la condivisione del dolore non ha solo una motivazione compassionevole, ma ha una radice biologica. Inoltre, si è visto che lo stare accanto, la nostra presenza, può addirittura ridurre grandemente la percezione del dolore in chi soffre, alzando la soglia del dolore stesso, entrando perciò a buon diritto e con le carte in regola, come “presidio scientifico”, nella terapia del dolore [9].
L’ascolto
Ma per farsi uno, occorre anche esercitare la capacità di ascolto, una capacità che va oltre il semplice udire. Ascoltare significa cercare di percepire non solo le parole, ma anche i pensieri, lo stato d'animo, il significato personale e più nascosto del messaggio che ci viene trasmesso. Richiede di staccarsi dai propri interessi, dai propri schemi di pensiero e di vita, per introdursi gradatamente e con rispetto nel mondo dell'altro.
Il terreno fertile su cui può crescere una buona capacità di ascolto è un atteggiamento che spesso ci riesce difficile mettere in atto, anche se rappresenta una condizione indispensabile: si tratta della sospensione del giudizio, cioè astenersi da valutazioni di approvazione o disapprovazione, da affrettate conclusioni. Significa quindi l’accettazione incondizionata dell’altro.
Oltre al silenzio di chi ascolta, deve esserci spazio anche per il silenzio del paziente. A volte, col suo silenzio, vuole dirci che ha bisogno di riflettere, o che si sente bloccato per qualcosa che ha colto in noi o nell'ambiente, in altri momenti forse ci rivolge l'invito a dargli un aiuto, a fargli una domanda.
Così una tale relazione, che non è solo uno scambio di parole e di emozioni, ma è sostanziata di ascolto profondo per accogliere l’altro, costituirà per entrambi - operatore e paziente - una nuova e preziosa esperienza di vita.
L’ambiente “terapeutico”
Nel mondo sanitario però, non è sufficiente l’impegno dei singoli operatori nei confronti dei pazienti. Oggi, nella pratica assistenziale, si sottolinea sempre più il lavoro in équipe, la multidisciplinarietà. Del resto, sono gli stessi progressi tecnologici della medicina che rendono “obbligatorio” il lavorare insieme, anche nella prospettiva di migliorare l’organizzazione dei servizi, la qualità dell’assistenza.
Come rendere proficuo il contributo di ogni operatore?
A volte viene spontaneo, arrivando al lavoro, guardare ai colleghi, agli altri operatori, già presupponendo i limiti di ciascuno, le difficoltà che si sono sperimentate nel rapporto con l’uno o con l’altro. Questo sguardo però impedisce di far emergere le potenzialità, la possibilità di cambiamento o comunque la comprensione del collega.
In effetti, non sempre è facile stabilire un rapporto di stima, di rispetto, ci si può trovare a lavorare in un ambiente caratterizzato da rivalità, da arrivismo, in cui si è criticati, ostacolati: eppure, solo riuscendo a mantenere un atteggiamento di fiducia, di apertura, di non pregiudizio, si aiuta l’altro ad entrare in un circuito positivo, dove prima o poi si può riaccendere un rapporto di confronto costruttivo.
E’ dimostrato scientificamente anche il valore del perdono [10]. Ad es., studi sulle conseguenze fisiologiche della violenza e dell’ostilità fra gruppi etnici hanno evidenziato che il solo pensare al nemico induce reazioni fisiche, con aumento degli ormoni dello stress, della pressione sanguigna e diminuzione delle difese immunitarie. Il perdono al contrario agisce come un antidoto, invertendo la reazione biologica.
Se le situazioni di conflitto possono essere inevitabili, è necessario allora affrontarle come occasioni di crescita personale e di sviluppo dei rapporti interpersonali. In questa prospettiva, lavorare insieme comporta anche concordare obiettivi comuni, imparare a superare impressioni personali per poter dar credito anche a quelle degli altri.
Inoltre l’équipe è il primo luogo per elaborare quegli oneri psicologici e spirituali che il lavoro assistenziale, nel tempo, può comportare. La possibilità di condividere con altri il coinvolgimento emotivo di fronte ad una situazione particolarmente dolorosa, di confrontare una decisione difficile, di chiedere un parere, è un aiuto fondamentale, si rivela anzi “terapeutico” per la persona dell’operatore.
Un ostacolo può derivare anche dal rapporto gerarchico, pur necessario in un sistema organizzativo complesso come quello sanitario: spesso gli attriti, i malesseri nascono da un’autorità male intesa o male esercitata. Il fenomeno dilagante del mobbing ne è un’espressione.
La prospettiva della fraternità di cui parla Chiara Lubich può offrire una metodologia, o più ancora una chiave interpretativa, per cogliere il significato anche di ogni rapporto gerarchico nella sua essenza. La fraternità richiede infatti che chi esercita l’autorità lo faccia come un servizio in più, un amore più grande, con un’attenzione particolare nei confronti di chi lavora per lui; dall’altra parte, a chi deve sottostare all’autorità, viene richiesto un atteggiamento di rispetto, di ascolto, di non pregiudizio, di contributo costruttivo.
Solo in questa disponibilità di ciascuno, si può tendere a realizzare un vero “prendersi cura” del paziente.
L’esercizio stesso della professione dovrebbe essere inteso come la ricerca delle soluzioni che nascono dalle proprie idee, dalla competenza professionale, ma in dialogo con gli altri, a vantaggio del proprio lavoro e dell’insieme. Un ulteriore risultato sarà un innalzamento degli standard di qualità, non soltanto nella prospettiva di soddisfare il controllo di qualità previsto dai protocolli di valutazione, ma sostanziando la qualità di un reale “benessere” per tutte le persone coinvolte nel processo di cura.
La persona, qualsiasi ruolo essa svolga, qualsiasi funzione esplichi nell’organizzazione sanitaria, dovrebbe sentirsi protagonista di un continuo miglioramento dell’assistenza.
Tutto questo può permettere allora di realizzare un ambiente assistenziale che sia realmente “terapeutico”: per il paziente, che respira un clima sereno, di attenzione, di ascolto, di cura nel senso più globale. Per gli operatori, che si sentono apprezzati e valorizzati per il loro lavoro. Per chi dirige, che avvertirà meno il peso delle responsabilità e delle decisioni che vengono condivise e partecipate.
Flavia Caretta
[1] cfr. S. Leone, G. Seroni, (a cura) Persona e salute, Istituto Siciliano di Bioetica, Collectio Bioethica, n.12, Armando Editore, 1996, p 48
[2] Caretta F., Petrini M., Ai confini del dolore. Salute e malattia nelle culture religiose, Città Nuova, Roma 1999
[3] M. Puchalski C.M., Spirituality and Health: The Art of Compassionate Medicine. Hospital Physician 2001;37(3) :30-36
[4] Park N.S., Lee B.S., Sun F., Klemmack D.L., Roff L.L., Koenig H.G., Typologies of Religiousness/Spirituality: Implications for Health and Well-Being. J Relig Health. 2011 Jul 19 (Epub ahead of print)
[5] Firshein J. Spirituality in medicine gains support in the USA. The Lancet 1997; 349 May 3: 1300
[6] Jakob Hakansson e Henry Montgomery, Empathy as an interpersonal phenomenon, Journal of social and personal relationships, 2003;20:267-284
[7] AA.VV., cfr. Per una sanità di comunione. Il carisma dell’unità e la medicina, Associazione Culturale Medicina Dialogo Comunione, Roma 2004, p. 42
[8] Alberto Oliviero, Cervello, Etica e Altruismo, Abstracts Convegno Internazionale nella Storia Evolutiva dell’Uomo, Istituto Italiano di Antropologia e Università di Roma “La Sapienza”, Roma, 8 maggio 2007
[9] Tiengo M., Dolore e natura in La relazione: l’essenza dell’arte medica. Associazione Medicina Dialogo Comunione, Roma 2007, pp. 169-171
[10] Fred Luskin, Forgive for Good, Harper San Francisco, San Francisco, 2001