Il “farsi uno”
Se anche tutti i pazienti sono meritevoli di una stessa attenzione, è pur vero che ogni paziente è diverso dall’altro: è necessario allora cercare di comprendere in quale situazione di salute e in quale stato emotivo si trovi, al fine di instaurare una relazione adeguata e una comunicazione efficace.
Si è usato moltissimo in questi anni il termine empatia: si parla sempre più spesso di rapporto empatico, di operatori “orientati alla persona”, ecc. Qualche volta il rischio può essere quello di banalizzare, di svuotare dei contenuti questo termine, a volte abusato, limitandosi ad una cordialità di facciata con il paziente o ad atteggiamenti di cameratismo.
Un’espressione efficace potrebbe essere ‘farsi uno’, che dà il senso dell’entrare il più profondamente possibile nell’animo dell’altro, cercare di mettersi nella sua situazione, nei suoi panni, nella sua pelle. Capire veramente i suoi problemi, i suoi bisogni, per farsi carico dei suoi pesi, addossarsi le sue necessità, come le sue sofferenze [7].
Le tecniche di neuroimaging riescono oggi quasi a definire una mappa del nostro cervello sociale, cioè delle reti neuronali che si attivano e cooperano durante le interazioni sociali. Con esse, si è evidenziato che, di fronte ad una persona che soffre, si attivano automaticamente le stesse aree cerebrali nella persona che prova dolore e in chi le sta di fronte [8]. Quindi, la condivisione del dolore non ha solo una motivazione compassionevole, ma ha una radice biologica. Inoltre, si è visto che lo stare accanto, la nostra presenza, può addirittura ridurre grandemente la percezione del dolore in chi soffre, alzando la soglia del dolore stesso, entrando perciò a buon diritto e con le carte in regola, come “presidio scientifico”, nella terapia del dolore [9].