L’ambiente “terapeutico”
Nel mondo sanitario però, non è sufficiente l’impegno dei singoli operatori nei confronti dei pazienti. Oggi, nella pratica assistenziale, si sottolinea sempre più il lavoro in équipe, la multidisciplinarietà. Del resto, sono gli stessi progressi tecnologici della medicina che rendono “obbligatorio” il lavorare insieme, anche nella prospettiva di migliorare l’organizzazione dei servizi, la qualità dell’assistenza.
Come rendere proficuo il contributo di ogni operatore?
A volte viene spontaneo, arrivando al lavoro, guardare ai colleghi, agli altri operatori, già presupponendo i limiti di ciascuno, le difficoltà che si sono sperimentate nel rapporto con l’uno o con l’altro. Questo sguardo però impedisce di far emergere le potenzialità, la possibilità di cambiamento o comunque la comprensione del collega.
In effetti, non sempre è facile stabilire un rapporto di stima, di rispetto, ci si può trovare a lavorare in un ambiente caratterizzato da rivalità, da arrivismo, in cui si è criticati, ostacolati: eppure, solo riuscendo a mantenere un atteggiamento di fiducia, di apertura, di non pregiudizio, si aiuta l’altro ad entrare in un circuito positivo, dove prima o poi si può riaccendere un rapporto di confronto costruttivo.
E’ dimostrato scientificamente anche il valore del perdono [10]. Ad es., studi sulle conseguenze fisiologiche della violenza e dell’ostilità fra gruppi etnici hanno evidenziato che il solo pensare al nemico induce reazioni fisiche, con aumento degli ormoni dello stress, della pressione sanguigna e diminuzione delle difese immunitarie. Il perdono al contrario agisce come un antidoto, invertendo la reazione biologica.
Se le situazioni di conflitto possono essere inevitabili, è necessario allora affrontarle come occasioni di crescita personale e di sviluppo dei rapporti interpersonali. In questa prospettiva, lavorare insieme comporta anche concordare obiettivi comuni, imparare a superare impressioni personali per poter dar credito anche a quelle degli altri.
Inoltre l’équipe è il primo luogo per elaborare quegli oneri psicologici e spirituali che il lavoro assistenziale, nel tempo, può comportare. La possibilità di condividere con altri il coinvolgimento emotivo di fronte ad una situazione particolarmente dolorosa, di confrontare una decisione difficile, di chiedere un parere, è un aiuto fondamentale, si rivela anzi “terapeutico” per la persona dell’operatore.
Un ostacolo può derivare anche dal rapporto gerarchico, pur necessario in un sistema organizzativo complesso come quello sanitario: spesso gli attriti, i malesseri nascono da un’autorità male intesa o male esercitata. Il fenomeno dilagante del mobbing ne è un’espressione.
La prospettiva della fraternità di cui parla Chiara Lubich può offrire una metodologia, o più ancora una chiave interpretativa, per cogliere il significato anche di ogni rapporto gerarchico nella sua essenza. La fraternità richiede infatti che chi esercita l’autorità lo faccia come un servizio in più, un amore più grande, con un’attenzione particolare nei confronti di chi lavora per lui; dall’altra parte, a chi deve sottostare all’autorità, viene richiesto un atteggiamento di rispetto, di ascolto, di non pregiudizio, di contributo costruttivo.
Solo in questa disponibilità di ciascuno, si può tendere a realizzare un vero “prendersi cura” del paziente.
L’esercizio stesso della professione dovrebbe essere inteso come la ricerca delle soluzioni che nascono dalle proprie idee, dalla competenza professionale, ma in dialogo con gli altri, a vantaggio del proprio lavoro e dell’insieme. Un ulteriore risultato sarà un innalzamento degli standard di qualità, non soltanto nella prospettiva di soddisfare il controllo di qualità previsto dai protocolli di valutazione, ma sostanziando la qualità di un reale “benessere” per tutte le persone coinvolte nel processo di cura.
La persona, qualsiasi ruolo essa svolga, qualsiasi funzione esplichi nell’organizzazione sanitaria, dovrebbe sentirsi protagonista di un continuo miglioramento dell’assistenza.
Tutto questo può permettere allora di realizzare un ambiente assistenziale che sia realmente “terapeutico”: per il paziente, che respira un clima sereno, di attenzione, di ascolto, di cura nel senso più globale. Per gli operatori, che si sentono apprezzati e valorizzati per il loro lavoro. Per chi dirige, che avvertirà meno il peso delle responsabilità e delle decisioni che vengono condivise e partecipate.
Flavia Caretta