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Il ruolo della spiritualità per il paziente e l'équipe di cura  Flavia Caretta [1]     In tutte le tradizioni, la medicina era vista come un dono della Divinità: lo attesta già il giuramento di Ippocrate. La medicina fa appello ad una trasformazione profonda della persona malata, a una vera e propria conversione: la guarigione del corpo, quando avviene, è in pratica la conseguenza di una guarigione dell’anima ottenuta attraverso una purificazione, una catarsi, più o meno lunga. In questo scenario terapeutico il ristabilirsi di un rapporto spirituale con il divino riporta alla norma, cioè alla salute [2]. Quindi salute e malattia erano sempre riferite ad una precisa visione dell'uomo: è evidente che la prospettiva della spiritualità era parte integrante della persona considerata nella sua totalità.  Nell’evoluzione avvenuta nel corso dei secoli, pur fra tendenze a volte contrastanti, è sempre stata presente questa visione: infatti, nella tradizione occidentale, medicina e religione sono sempre state connesse, anche se più o meno strettamente.  Nell'avviarsi del processo storico di secolarizzazione, il curante diventava sempre meno un esperto della salvezza dell’anima e sempre più un esperto della salute del corpo, dispensatore o mediatore di una salute ritenuta sempre meno dono di Dio e sempre più dono della  scienza.  Accanto a questa evoluzione meccanicistica della medicina non sono comunque mancate, in ogni epoca, voci autorevoli di dissenso. Ad esempio, sir William Osler e Richard Clarke Cabot, due famosi medici che contribuirono allo sviluppo della medicina scientifica tra il XVIII e il XIX secolo, sostennero fortemente l’importanza della soggettività del malato e della considerazione della spiritualità nell’ambito assistenziale.  Cabot osservava che non passa una settimana nella pratica clinica di un medico senza che sia consultato su uno o più problemi e religiosi, non per speculazione intellettuale, ma piuttosto come domande di una sofferenza umana[3]. Per Cabot quindi, la comprensione di problematiche religiose era importante per il medico, poiché la religione era importante per il paziente del medico.  E’ innegabile però che i rapidi progressi della medicina hanno finito per centrare l’attenzione sugli aspetti biofisici, arrivando al modello biomedico, che identifica la malattia rispetto a precisi parametri biologici, classificabili con segni e sintomi e analizzabili secondo i rigorosi canoni della Evidence Based Medicine (EBM). Un modello riduzionista, perché non vengono considerate le dimensioni psicologiche, sociali, spirituali, ritenute al di fuori del controllo biomedico.  Ma stanno emergendo anche altri approcci e modelli dell’agire clinico, come la Medicina Narrativa, la Patient-Centered Medicine ed altri ancora. Pur con varie differenziazioni, richiamano tutti alla necessità di coniugare la prospettiva del medico con quella del paziente, dei suoi valori, del suo vissuto, del suo gruppo familiare e sociale di riferimento. La narrazione della malattia non è solo la descrizione di un processo patologico, ma del vissuto di uno specifico essere umano in una particolare situazione [4].  Si constata inoltre un crescente interesse nei confronti della spiritualità, evidenziato dagli stessi medici e professionisti sanitari; interesse che presenta aspetti simili a quelli riscontrati nella società in generale.  In un articolo pubblicato su «Lancet» nel 1997, si affermava che la “spiritualità è il fattore dimenticato in medicina e, da più parti, si auspicava che venisse inserita nel curriculum degli studi delle scuole biomediche” [5].  Negli ultimi decenni si è cercato anche di dimostrare scientificamente l’influenza della spiritualità su varie patologie: già nel 1987 due review presentavano un ampio quadro d’insieme ricavato da duecento studi empirici pubblicati nella letteratura medica sugli effetti della spiritualità sulla salute [6],[7] e sulla morbidità e mortalità.  Una recente review sistematica basata su una ricerca quantitativa di pubblicazioni in riviste peer-reviewed tra gli anni 1872 e 2010, suddivide le ricerche in 4 ambiti principali per riuscire a presentare la quantità e la molteplicità dei dati riguardanti il rapporto tra spiritualità e medicina: salute fisica, salute mentale, stili di vita, implicazioni cliniche [8]. Si evidenziano inoltre alcuni contesti specifici nei quali queste dimensioni hanno avuto un impatto particolarmente significativo: le patologie gravi e la fase terminale [9]. Uno studio in ambito oncologico ad esempio sottolinea l’importanza di comprendere la cura spirituale all’interno dell’équipe multidisciplinare, con il risultato della riduzione del rischio di terapie aggressive, oltre al miglioramento della qualità di vita [10].  Altre evidenze riportate dagli studi sono le seguenti [11] :  - La spiritualità spesso dà un senso di benessere, migliora la qualità di vita, aumenta la sopravvivenza [12],[13] fornisce un supporto psicosociale[14],[15]. - Le convinzioni spirituali possono avere un’influenza anche sul processo decisionale[16] - I pazienti desiderano parlare con i loro medici dei bisogni spirituali e che sia compresa anche la spiritualità nei piani di cura[17],[18].. Una presentazione ampia ed esaustiva delle ricerche svolte in diversi contesti assistenziali sarà presentata dai relatori successivi.     Limiti degli studi  Non è facile definire la complessità e le diverse sfaccettature di concetti come religiosità e spiritualità, come non lo è arrivare a una definizione accettata da tutti i ricercatori. Questa mancanza di consenso rende difficile un confronto fra i risultati dei vari studi [19].  La religiosità e la spiritualità sono state considerate come una sola e medesima realtà fino a tempi recenti. Con l'avvento del ventesimo secolo vi è stata una graduale distinzione tra religiosità e spiritualità: si sostiene che la spiritualità comprende la religiosità, ma non coincide con questa, può non essere connessa con una particolare fede religiosa. La dimensione spirituale può essere delineata come i bisogni di significato, di scopo, di realizzazione che connotano la vita umana, le convinzioni, la fede.  Si può “misurare” il livello di religiosità e/o spiritualità? Con quali strumenti?  Gli stessi risultati in termini di parametri biologici, non potrebbero in realtà dipendere da altre variabili associate (cambiamenti degli stili di vita, dell’ambiente, ecc.)?  Per questi motivi, in genere si preferisce fare riferimento ai due termini considerati insieme: comunque numerosi sono gli studi che evidenziano correlazioni positive fra religiosità/spiritualità e salute.     Le implicazioni assistenziali  Pur concordando pienamente sul fatto che la cura spirituale deve fare parte del processo assistenziale, ci si potrebbe domandare: chi dovrebbe praticarla e come si dovrebbe attuare?  Va considerato che una criticità presente in genere in tutti gli ambienti assistenziali è costituita dalla scarsità del tempo da dedicare ad ogni paziente. Come tradurre allora nel quotidiano assistenziale quanto si è esposto finora?  Molti operatori sanitari con una forte esigenza spirituale cercano di “tradurre” questo aspetto della loro vita personale nel lavoro professionale: forse alcune “strategie” già sperimentate possono essere di aiuto. Mi riferisco alla spiritualità di Chiara Lubich che ha come scopo la fraternità universale e che richiede a ciascuno di contribuire a realizzarla nel rapporto con quanti incontriamo.  1) La personalizzazione dell’assistenza Personalizzare l’assistenza richiede di considerare unico ogni paziente e dargliene la sensazione. Un modo sta nel considerare la persona che si ha di fronte come fosse la sola che si incontrerà nella giornata, senza pensare al paziente precedente o a quello che sta aspettando. Riuscire a vivere il momento presente libera dalla fretta e da condizionamenti che potrebbero offuscare la decisione da prendere.  Un passo ulteriore è quello di considerare il paziente come se stessi: un riferimento significativo per i cristiani è l’”ama il prossimo come te stesso”, ma lo stesso imperativo è richiesto in altre tradizioni [20]. Ad esempio Gandhi affermava: Ogni professionista sanitario può e deve porre attenzione alla cura spirituale: la si può attuare se, oltre alla necessaria competenza scientifica, si tiene presente il senso profondo della professione, il significato della malattia per il paziente e la sua famiglia. Se è importante inserire la spiritualità nella formazione dei professionisti sanitari, il passo successivo è cercare di viverla, cioè di «tradurre» la spiritualità in gesti concreti nel quotidiano assistenziale.

 Si realizza in tal modo una vera reciprocità, in cui pazienti e operatori possono sentirsi “sanati” o risanati” nelle relazioni di cura, in una condivisione di sospensioni, di momenti dolorosi, di nuove speranze, che aiutano a rimettere a fuoco gli aspetti essenziali non solo della professione, ma del significato autentico della nostra vita.

 In tutte le tradizioni, la medicina era vista come un dono della Divinità: lo attesta già il giuramento di Ippocrate. La medicina fa appello ad una trasformazione profonda della persona malata, a una vera e propria conversione: la guarigione del corpo, quando avviene, è in pratica la conseguenza di una guarigione dell’anima ottenuta attraverso una purificazione, una catarsi, più o meno lunga. In questo scenario terapeutico il ristabilirsi di un rapporto spirituale con il divino riporta alla norma, cioè alla salute [2]. Quindi salute e malattia erano sempre riferite ad una precisa visione dell'uomo: è evidente che la prospettiva della spiritualità era parte integrante della persona considerata nella sua totalità.

Nell’evoluzione avvenuta nel corso dei secoli, pur fra tendenze a volte contrastanti, è sempre stata presente questa visione: infatti, nella tradizione occidentale, medicina e religione sono sempre state connesse, anche se più o meno strettamente.

Nell'avviarsi del processo storico di secolarizzazione, il curante diventava sempre meno un esperto della salvezza dell’anima e sempre più un esperto della salute del corpo, dispensatore o mediatore di una salute ritenuta sempre meno dono di Dio e sempre più dono della scienza.

Accanto a questa evoluzione meccanicistica della medicina non sono comunque mancate, in ogni epoca, voci autorevoli di dissenso. Ad esempio, sir William Osler e Richard Clarke Cabot, due famosi medici che contribuirono allo sviluppo della medicina scientifica tra il XVIII e il XIX secolo, sostennero fortemente l’importanza della soggettività del malato e della considerazione della spiritualità nell’ambito assistenziale.

Cabot osservava che non passa una settimana nella pratica clinica di un medico senza che sia consultato su uno o più problemi e religiosi, non per speculazione intellettuale, ma piuttosto come domande di una sofferenza umana[3]. Per Cabot quindi, la comprensione di problematiche religiose era importante per il medico, poiché la religione era importante per il paziente del medico.

E’ innegabile però che i rapidi progressi della medicina hanno finito per centrare l’attenzione sugli aspetti biofisici, arrivando al modello biomedico, che identifica la malattia rispetto a precisi parametri biologici, classificabili con segni e sintomi e analizzabili secondo i rigorosi canoni della Evidence Based Medicine (EBM). Un modello riduzionista, perché non vengono considerate le dimensioni psicologiche, sociali, spirituali, ritenute al di fuori del controllo biomedico.

Ma stanno emergendo anche altri approcci e modelli dell’agire clinico, come la Medicina Narrativa, la Patient-Centered Medicine ed altri ancora. Pur con varie differenziazioni, richiamano tutti alla necessità di coniugare la prospettiva del medico con quella del paziente, dei suoi valori, del suo vissuto, del suo gruppo familiare e sociale di riferimento. La narrazione della malattia non è solo la descrizione di un processo patologico, ma del vissuto di uno specifico essere umano in una particolare situazione [4].

Si constata inoltre un crescente interesse nei confronti della spiritualità, evidenziato dagli stessi medici e professionisti sanitari; interesse che presenta aspetti simili a quelli riscontrati nella società in generale.

In un articolo pubblicato su «Lancet» nel 1997, si affermava che la “spiritualità è il fattore dimenticato in medicina e, da più parti, si auspicava che venisse inserita nel curriculum degli studi delle scuole biomediche” [5].

Negli ultimi decenni si è cercato anche di dimostrare scientificamente l’influenza della spiritualità su varie patologie: già nel 1987 due review presentavano un ampio quadro d’insieme ricavato da duecento studi empirici pubblicati nella letteratura medica sugli effetti della spiritualità sulla salute [6],[7] e sulla morbidità e mortalità.

Una recente review sistematica basata su una ricerca quantitativa di pubblicazioni in riviste peer-reviewed tra gli anni 1872 e 2010, suddivide le ricerche in 4 ambiti principali per riuscire a presentare la quantità e la molteplicità dei dati riguardanti il rapporto tra spiritualità e medicina: salute fisica, salute mentale, stili di vita, implicazioni cliniche [8]. Si evidenziano inoltre alcuni contesti specifici nei quali queste dimensioni hanno avuto un impatto particolarmente significativo: le patologie gravi e la fase terminale [9]. Uno studio in ambito oncologico ad esempio sottolinea l’importanza di comprendere la cura spirituale all’interno dell’équipe multidisciplinare, con il risultato della riduzione del rischio di terapie aggressive, oltre al miglioramento della qualità di vita [10].

Altre evidenze riportate dagli studi sono le seguenti [11] :

- La spiritualità spesso dà un senso di benessere, migliora la qualità di vita, aumenta la sopravvivenza [12],[13] fornisce un supporto psicosociale[14],[15].
- Le convinzioni spirituali possono avere un’influenza anche sul processo decisionale[16]
- I pazienti desiderano parlare con i loro medici dei bisogni spirituali e che sia compresa anche la spiritualità nei piani di cura[17],[18]..
Una presentazione ampia ed esaustiva delle ricerche svolte in diversi contesti assistenziali sarà presentata dai relatori successivi.

Limiti degli studi

Non è facile definire la complessità e le diverse sfaccettature di concetti come religiosità e spiritualità, come non lo è arrivare a una definizione accettata da tutti i ricercatori. Questa mancanza di consenso rende difficile un confronto fra i risultati dei vari studi [19].

La religiosità e la spiritualità sono state considerate come una sola e medesima realtà fino a tempi recenti. Con l'avvento del ventesimo secolo vi è stata una graduale distinzione tra religiosità e spiritualità: si sostiene che la spiritualità comprende la religiosità, ma non coincide con questa, può non essere connessa con una particolare fede religiosa. La dimensione spirituale può essere delineata come i bisogni di significato, di scopo, di realizzazione che connotano la vita umana, le convinzioni, la fede.

Si può “misurare” il livello di religiosità e/o spiritualità? Con quali strumenti?

Gli stessi risultati in termini di parametri biologici, non potrebbero in realtà dipendere da altre variabili associate (cambiamenti degli stili di vita, dell’ambiente, ecc.)?

Per questi motivi, in genere si preferisce fare riferimento ai due termini considerati insieme: comunque numerosi sono gli studi che evidenziano correlazioni positive fra religiosità/spiritualità e salute.

Le implicazioni assistenziali

Pur concordando pienamente sul fatto che la cura spirituale deve fare parte del processo assistenziale, ci si potrebbe domandare: chi dovrebbe praticarla e come si dovrebbe attuare?

Va considerato che una criticità presente in genere in tutti gli ambienti assistenziali è costituita dalla scarsità del tempo da dedicare ad ogni paziente. Come tradurre allora nel quotidiano assistenziale quanto si è esposto finora?

Molti operatori sanitari con una forte esigenza spirituale cercano di “tradurre” questo aspetto della loro vita personale nel lavoro professionale: forse alcune “strategie” già sperimentate possono essere di aiuto. Mi riferisco alla spiritualità di Chiara Lubich che ha come scopo la fraternità universale e che richiede a ciascuno di contribuire a realizzarla nel rapporto con quanti incontriamo.

1) La personalizzazione dell’assistenza

Personalizzare l’assistenza richiede di considerare unico ogni paziente e dargliene la sensazione. Un modo sta nel considerare la persona che si ha di fronte come fosse la sola che si incontrerà nella giornata, senza pensare al paziente precedente o a quello che sta aspettando. Riuscire a vivere il momento presente libera dalla fretta e da condizionamenti che potrebbero offuscare la decisione da prendere.

Un passo ulteriore è quello di considerare il paziente come se stessi: un riferimento significativo per i cristiani è l’”ama il prossimo come te stesso”, ma lo stesso imperativo è richiesto in altre tradizioni [20]. Ad esempio Gandhi affermava: "Tu ed io non siamo che una cosa sola. Non posso farti del male senza ferirmi".

Una tale considerazione nei confronti del paziente comporta allora che non posso fare preferenze, distinzioni tra paziente collaborante e paziente ipercritico, fra chi presenta patologie interessanti e chi invece ha patologie banali, povere di soddisfazione: devo partire dal presupposto che tutti i pazienti hanno lo stesso diritto alla mia attenzione.

2) Prendere l’iniziativa nel rapporto con il paziente

E’ un’affermazione che potrebbe sembrare ovvia: generalmente è il medico, l’operatore a fare il primo passo verso il paziente, ma non è sempre così. E’ difficile l’approccio con chi rivolge lamentele, rimproveri e lo è ancor più riuscire ad accoglierlo la volta successiva. Eppure l’operatore non può aspettarsi che il paziente sia lui per primo a comportarsi nel modo desiderato, che sia comprensivo della fatica e dello stress del lavoro assistenziale: sta a noi prendere l’iniziativa di un rapporto che faccia avvertire al paziente il nostro interessamento, la stima, la fiducia, il desiderio sincero di essergli di aiuto.

Un tale atteggiamento dell’operatore può facilitare un atteggiamento simile nel paziente per cui scaturisce una reciprocità, una sintonia di intenti, “un’alleanza terapeutica”.

3) Il “farsi uno”

Se tutti i pazienti sono meritevoli di una stessa attenzione, è pur vero che ogni paziente è diverso dall’altro: è necessario allora cercare di comprendere in quale situazione di salute e in quale stato emotivo si trovi, al fine di instaurare una relazione adeguata e una comunicazione efficace.

Si è usato moltissimo in questi anni il termine empatia: si parla sempre più spesso di rapporto empatico, di operatori “orientati alla persona”, ecc. Qualche volta il rischio può essere quello di banalizzare, di svuotare dei contenuti questo termine, a volte abusato, limitandosi ad una cordialità di facciata con il paziente o ad atteggiamenti di cameratismo.

Un’espressione efficace potrebbe essere ‘farsi uno’, che dà il senso dell’entrare il più profondamente possibile nell’animo dell’altro, cercare di mettersi nella sua situazione, mettersi nei suoi panni, nella sua pelle; capire veramente i suoi problemi, i suoi bisogni; farsi carico completo dei suoi pesi, addossarsi le sue necessità, come le sue sofferenze [21].

4) L’ascolto

Ma per questo, occorre prima di tutto esercitare la capacità di ascolto, una capacità che va oltre il semplice udire. Infatti se udire si svolge e si esaurisce a livello fisiologico della funzione uditiva e si attua anche senza o contro l'intenzione o la volontà della persona, ascoltare significa percepire non solo le parole, ma anche i pensieri, lo stato d'animo, il significato personale e più nascosto del messaggio che ci viene trasmesso.

Per ascoltare occorre staccarsi dai propri interessi, dai propri schemi di pensiero e di vita, per introdursi gradatamente e con rispetto nel mondo dell'altro.

Il terreno fertile su cui può crescere una buona capacità di ascolto è un atteggiamento che spesso ci riesce difficile mettere in atto, anche se rappresenta una condizione indispensabile per l’ascolto: si tratta della sospensione del giudizio, che significa astenersi da valutazioni di approvazione o disapprovazione, da conclusioni affrettate. Significa quindi l’accettazione incondizionata dell’altro.

Oltre al silenzio di chi ascolta, deve esserci spazio anche per il silenzio del paziente. A volte, col suo silenzio, vuole dirci che ha bisogno di riflettere, o intende avvertirci che si sente bloccato per qualcosa che ha colto in noi o nell'ambiente, in altri momenti forse ci rivolge l'invito a dargli una mano, a fargli una domanda.

Il ruolo della spiritualità nell’équipe di cura

La spiritualità investe anche le persone degli operatori e il rapporto fra loro. Gli atteggiamenti nei confronti dei pazienti vanno vissuti anche nei confronti dei colleghi.

Il processo formativo è ancora oggi più rivolto ad uno svolgimento “autonomo” della professione: di conseguenza nei diversi luoghi assistenziali quello che più spesso viene in evidenza è piuttosto l’individualismo, lo spirito di corpo, la difesa del proprio ruolo, l’obiettivo della carriera anche a scapito degli altri colleghi.

D’altra parte, il lavoro insieme non si improvvisa, non è sufficiente trovarsi ad interagire nello stesso ambiente di lavoro per creare l’équipe: è necessario piuttosto che i diversi operatori lo perseguano attivamente.

Inoltre l’équipe non va letta solo nella prospettiva del paziente, anzi, dovrebbe essere letto prima di tutto nella prospettiva degli operatori: è il primo luogo per elaborare anche quegli oneri psicologici e spirituali che il lavoro assistenziale, nel tempo, può comportare. La possibilità di condividere con altri il coinvolgimento emotivo di fronte ad una situazione particolarmente dolorosa, di confrontare una decisione difficile, di chiedere un parere, è un aiuto fondamentale, si rivela anzi “terapeutico” per la persona dell’operatore.

Ma perché un gruppo multidisciplinare risulti efficace, tutti i membri devono accettare che nessuno ha tutte le risposte per tutte le domande, dato che tutti in qualche modo dipendono dalla cultura e dalla competenza degli altri. Occorre allora mettersi di fronte a ciascuno nell’atteggiamento di imparare per riuscire a scoprire quale contributo, quale arricchimento può venire da chi lavora insieme a noi.

L’ambiente assistenziale sarà allora realmente “terapeutico”: per il paziente, che respirerà un clima sereno, di attenzione, di ascolto, di cura nel senso più globale del termine, ma anche per gli operatori che si sentiranno apprezzati, valorizzati per il loro lavoro e infine per chi dirige, perché avvertirà meno il peso delle responsabilità e delle decisioni che verranno condivise e partecipate.

Questo “clima”, oltre a migliorare il rapporto medico-paziente, contribuisce ad aumentare l'impatto terapeutico degli interventi.

Conclusioni

In questa prospettiva ogni professionista sanitario può e deve porre attenzione alla cura spirituale: la si può attuare se, oltre alla necessaria competenza scientifica, si tiene presente il senso profondo della professione, il significato della malattia per il paziente e la sua famiglia.

Se è importante inserire la spiritualità nella formazione dei professionisti sanitari, il passo successivo è cercare di viverla, cioè di «tradurre» la spiritualità in gesti concreti nel quotidiano assistenziale.

Si realizza in tal modo una vera reciprocità, in cui pazienti e operatori possono sentirsi “sanati” o risanati” nelle relazioni di cura, in una condivisione di sospensioni, di momenti dolorosi, di nuove speranze, che aiutano a rimettere a fuoco gli aspetti essenziali non solo della professione, ma del significato autentico della nostra vita.

Flavia Caretta [1]

[1] Centro di Ricerca per la Promozione e lo Sviluppo dell’Assistenza Geriatrica, Università Cattolica del Sacro Cuore, Facoltà di Medicina e Chirurgia “Agostino Gemelli”, Roma

[2] Andrès G., La Medicina Tradizionale, Mediterranee, Roma 1997

[3] Cabot R.C., Training and rewards of the physician, J.B.Lippincott, Philadelphia 1918

[4] Weizsäcker von V., Filosofia della medicina. Guerini e Associati, Milano 1996, p. 103

[5] Firshein J., Spirituality in medicine gains support in the USA. «Lancet» 1997;349:1300.

[6] Levin J.S., Schiller P.L., Is there a religious factor in health? Journal Religion Health 1987;26(1):9-36

[7] Jarvis G.K., Northcutt H.C., Religion and differences in morbidity and mortality. Soc Sci Med. 1987;25:813–24

[8] Koenig H.G., Religion, Spirituality, and Health: The Research and Clinical Implications. International Scholarly 10Research Network ISRN Psychiatry). 2012, Dec 16;2012:278730. doi: 10.5402/2012/278730

[9] Candy B, Jones L, VaragunamM, Speck P, Tookman A, King M., Spiritual and religious interventions for well-being of adults in the terminal phase of disease. The Cochrane Database of Systematic Reviews 2012, Issue 5. Art. No.: CD007544.DOI: 10.1002/14651858.CD007544.pub2.

[10] Balboni T.A. et al., Provision of Spiritual Care to Patients With Advanced Cancer: Associations With Medical Care and Quality of Life Near Death. Journal of Clinical Oncology 2010;28(3):445-452

[11] Puchalski C.M., Post S.G, Sloan R.P., Physicians and Patients’ Spirituality. Virtual Mentor.American Medical Association. Journal of Ethics. 2009;11(10): 804-815

[12] Sawatzky R., Ratner P.A., Chiu L., A meta-analysis of the relationship between spirituality and quality of life. Social Indicators Research 2005;72:153-188.

[13] Chida Y, Steptoe A, Powell L.H., Religiosity/spirituality and mortality. A systematic quantitative review. Psychotherapy and Psychosomatics 2009;78:81-90.

[14] Cohen SR, Mount BM, Tomas JJ, Mount LF. Existential well-being is an important determinant of quality of life. Evidence from the McGill Quality of Life Questionnaire. Cancer. 1996;77(3):576-586.

[15] Burgener SC. Predicting quality of life in caregivers of Alzheimer’s patients: the role of support from and involvement with the religious community. Journal of Pastoral Care. 1999;53(4):433-446.

[16] Silvestri GA, Knittig S, Zoller JS, Nietert PJ. Importance of faith on medical decisions regarding cancer care. Journal of Clinical Oncology 2003;21(7):1379-1382.

[17] Ehman JW, Ott BB, Short TH, Ciampa RC, Hansen-Flaschen J. Do patients want physicians to inquire about their spiritual or religious beliefs if they become gravely ill? Archives of Internal Medicine. 1999;159(15):1803-1806.

[18] McCord G, Gilchrist VJ, Grossman SD, et al. Discussing spirituality with patients: a rational and ethical approach. Annals of Family Medicine 2004;2(4):356-361.

[19] Lucchetti G, Lucchetti A.L.G., Vallada H.P., Measuring spirituality and religiosity in clinical research: a systematic review of instruments (available in the Portuguese language). Sao Paulo Medical Journal 2013;131: 112–122.

[20] Lubich C. L’arte di amare. Città Nuova, Roma 2005

[21] Cfr. AA.VV., Per una sanità di comunione. Il carisma dell’unità e la medicina, Associazione Culturale Medicina Dialogo Comunione, Roma 2004, p. 42

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