Un’autorevole voce della spiritualità africana, Sobonfu Some, ha detto“.....In Africa quando si vuole operare una guarigione si parte proprio dall’analisi delle relazioni, perché in base a queste si può capire quanto siamo effettivamente in salute”. Se allora guardiamo alla malattia, alla sofferenza e alla morte, come ad un percorso di relazioni, potremmo ripristinare la centralità della persona nella sua unicità e interezza.
La mia esperienza di lavoro in Africa si è svolta per 22 anni a Fontem, un piccolo villaggio immerso nel cuore della foresta equatoriale del Camerun Sud Occidentale. Abbiamo visto nei dettagli il progetto dell’ Ospedale nella presentazione di ieri.
Il Camerun si trova a fronteggiare le sfide della maggioranza dei paesi dell’Africa subsahariana: gli ambulatori diffusi nel territorio rispondono appena alle esigenze primarie di profilassi, mentre i pochi ospedali pubblici nei grandi centri non sono di eccellente qualità, e molto costosi. Ci sono ospedali privati gestiti da religiosi, dove i prezzi sono più abbordabili. Molto tempo prima dell’arrivo della medicina occidentale, le popolazioni africane avevano il loro modo di curare le malattie e per loro funzionava. Questa medicina tradizionale o etnomedicina, continua ad essere profondamente radicata nella cultura e nel territorio, perchè è più facilmente accessibile, economica e soprattutto è una medicina olistica, si rivolge ai problemi del corpo, ma anche dello spirito e dell’anima. Spesso però non giunge ad una diagnosi corretta e le miscele sono il più delle volte preparate in condizioni di scarsa igiene.
”Così come esiste un modo africano di comprendere Dio ...- cito Thomas Oduru, teologo del Ghana - allo stesso modo, c'è un modo africano di comprendere il mondo visibile attorno a noi: il bestiame, gli alberi, le persone e le città, così come il mondo invisibile, il mondo soprannaturale degli spiriti, dei poteri e delle malattie "(Oduro, T., Hennie P., Nussbaum S. & Brain B., 2008, Mission in an African way: A practical introduction to African instituted churches and their sense of mission, Christian Literature Fund and Bible Media, Wellington)
L’africano non concepisce la salute semplicemente come un corretto funzionamento degli organi del corpo. Essa consiste invece in una stabilità mentale, fisica, spirituale, emozionale di se stesso, dei membri della sua famiglia e della comunità in cui è inserito.
Questa visione integrata della salute si basa sulla visione unitaria della realtà. Essere in buona salute non è un fatto personale, ma il risultato di un comportamento appropriato, vale a dire secondo i valori e le norme delle tradizioni della società in cui si vive.
E’ significativo che la definizione di salute dell’OMS (“uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e non la semplice assenza dello stato di malattia o infermità”) sia stata ottenuta a prezzo di una dura lotta da parte dei delegati dei paesi africani. Ricaviamo questa informazione dal Dott. Logmo, al tempo rappresentante del Camerun presso tale istituzione. In effetti una concezione globale della salute corrisponde maggiormente alla cultura africana, per cui un individuo non è malato da solo e non soltanto nel corpo, ma in tutto il suo essere, in relazione alla famiglia e al cosmo. “Guarire” significa ritrovare il proprio posto nel proprio microuniverso.
Mbiti, filosofo e teologo keniano, giustamente osserva: “L’uomo prende coscienza del proprio essere solo in relazione con gli altri: quando soffre, non soffre da solo, ma con il gruppo, ciò che accade all’individuo accade all’intero gruppo, e ciò che accade al gruppo, accade all’individuo. Egli può solo dire: - Io sono perchè noi siamo e poichè noi siamo, io sono”..(1990, African religions and philosophy)
La malattia riconosce cause diverse: attacchi da parte di spiriti cattivi, risentimento degli antenati, stregonerie o infrazioni di tabù..... Perché il nostro curare sia efficace, dobbiamo farci carico di tutto questo anche quando il paziente non lo esplicita, e non rifiutarlo, pur essendo lontano dalla concezione occidentale di malattia. E’lì che inizia la fiducia e, conseguentemente, la collaborazione.
Situazioni come quella di Joana sono molto comuni: “ Mia sorella si ammalò gravemente. La febbre non la lasciava. Uno stregone venne e ci disse che sarebbe morta dopo due giorni. Mia mamma pensò che potevamo portarla all’ospedale, ma mio padre si rifiutò, dicendo: Dobbiamo ascoltare lo stregone, questa bambina non sopravviverà”. Ma la mamma non desistette e riuscì a portarla in ospedale caricandosela sulle spalle. Quando arrivarono, i medici le diedero subito delle medicine e un’iniezione, e quella notte per la prima volta riuscì a dormire. Vedendo che al terzo giorno mia sorella era ancora viva, domandai: “Mamma, ma non avevano detto che sarebbe morta? Come mai è ancora viva?”. La mamma rispose: “Non dar retta a quelle persone, io ho capito che devo restare in ospedale e curarla”. Dopo due settimane guarì e ricominciò a camminare. La nostra esperienza fu un esempio per molti che sono venuti in ospedale anche solo per osservare questi medici stranieri, come si trattano tra loro, come trattano i malati, e vedevano che era tutto come in famiglia, tutti fratelli e figli della stessa madre”.
Nell’ospedale lavorano molti infermieri locali, una risorsa preziosa, perchè oltre a conoscere la lingua, così come la cultura e le tradizioni, assicurano una presenza vigile e discreta che comprende e si fa carico delle sfide che accompagnano la malattia: il dolore fisico, l’angoscia, la paura, l’emarginazione …. Uno di loro ci racconta: “ In questo Ospedale il lavoro ed i rapporti sono diversi da altri dove ho lavorato, perchè tutto si guarda dalla prospettiva del Vangelo. Vivere e lavorare insieme,condividere le gioie e le sofferenze che accompagnano la malattia, aiuta sia noi che lavoriamo che l’ammalato. Anche se abbiamo i nostri alti e bassi, cerchiamo di ricominciare e rinnovare il nostro impegno. Arriva di tutto, dalla semplice malaria ai casi disperati, come i pazienti affetti da HIV a diversi stadi di malattia, anche terminale. Quando qualcuno arriva, cerchiamo di guardarlo integralmente, mostrando interesse anche per la loro salute sociale e spirituale e questo approccio crea una fiducia reciproca. Possiamo dare un sorriso, un saluto, un pò di ascolto, andando incontro ai suoi bisogni o desideri. Un giorno un ragazzo che veniva da un villaggio lontano doveva fermarsi per andare al controllo dopo due giorni. "Dove vado a dormire? – mi disse – Non ho nessuno". Allora ho chiamato una donna che lavorava con noi, anche se aveva già tanti figli e tanti guai: "Non ti preoccupare – mi disse–può venire a casa con noi". Molti pazienti hanno detto che “l’amore” è stata una delle terapie ricevute in questo ospedale. Un giorno è arrivato un uomo che era caduto nel fuoco dopo un attacco epilettico. Siccome il villaggio era molto distante, è arrivato solo dopo due settimane, in coma, con quasi tutto il corpo bruciato, infettato e pieno di vermi. Il caso sembrava impossibile, qualcuno di noi non voleva nemmeno avvicinarsi, ma il chirurgo ci ha fatto coraggio...e tutti ci siamo buttati. Il trattamento è stato lungo e doloroso, una vera sfida! Lunghe medicazioni giornaliere il più delle volte sotto anestesia, diversi interventi in sala operatoria, terapie fisiche e anche psicologiche....Ognuno di noi, durante il prorio turno, faceva di tutto per stargli accanto e sostenerlo. Dopo 4 lunghi mesi tutte le ferite si sono coperte e il paziente ha potuto camminare con l’uso del bastone. Ha lasciato l’ospedale felice e con la voglia di vivere”.
Se ad un qualsiasi abitante del villaggio si pone la domanda se esistono spiriti cattivi, risponderà: “ Si, esistono. Quando un uomo comincia ad agire con un comportamento inspiegabile e incoerente, l’indovino dirà che è disturbato da spiriti cattivi. Si pensa così anche di un bambino che piange continuamente. Gli spiriti possono impossesarsi delle persone e farle agire in modo anormale. Se la persona ammalata scoprel’incantesimo in tempo, può essere curata da un medico nativo e guarire...”.
Le malattie mentali sono considerate di origine soprannaturale ed è comprensibile quindi come la cura con la medicina occidentale non sia di facile accettazione da parte del paziente e soprattutto della sua famiglia, che tende a marginalizzarlo se non addirittura ad allontanarlo. Abbiamo sempre più casi nell’ospedale, di cui si è occupato in modo particolare il Dott. Francisco Rodriguez, qui presente. Vorrei riportare l’esperienza di una paziente, frutto della collaborazione tra noi. E’ il marito che la racconta: “ Appena sposati, vivevamo in una bella casa in città e io avevo un buon lavoro. Quando è arrivato il primo figlio, è stato bellissimo per me, sentivo di aver raggiunto tutto quello che dovevo nella vita. Abbiamo avuto il secondo e terzo figlio. Dopo il quarto mia moglie si è ammalata. 5 mesi dopo il parto, con i medici dell’ospedale, si è capito che era un caso psichiatrico. Tante persone sono venute da me con suggerimenti diversi. Spesso lei andava in giro nuda, magari dormiva per la strada e dovevamo cercarla nella foresta. Non riuscivo ad accettare che fosse malata. Un giorno mi ha chiamato mio fratello più grande. Mi disse: “ Devi pensare a come prenderti cura di questi bambini. Se lei è malata, la cosa migliore è affidare i bambini a vari membri della famiglia. Non puoi continuare così, sei ancora giovane! Devi sposare un’altra donna”. Non potete immaginare quante proposte. Io avevo detto il mio sì a lei, e non potevo abbandonarla così sofferente.. Ho lasciato il mio lavoro in città e sono tornato a Fontem, dove lei avrebbe potuto essere seguita dall’ospedale. I bambini mi hanno aiutato. Un giorno però lei è scappata in un’altra città. E’ stata lì per 3 o 4 mesi. L’ho riportata a casa. Poi è fuggita di nuovo, ed è stata via per 7 mesi. Abbiamo continuato a carcarla. Se non avevssi avuto il sostegno costante dei medici che la seguivano, per la mia tradizione non avrei mai accettato una cosa del genere. Ma sono cristiano, e come tale devo guardare a ciascuno come a me stesso. Più tardi ho scoperto che mia moglie era incinta. Ma non ero io il padre. Davanti al medico io tremavo, era difficile per me. Ad un certo punto ho detto al dottore: “Chiediamole se sa chi è il padre”. Lei ha risposto: “E’ mio marito!”. Io le ho detto: “Guarda questo anello, me lo hai dato tu. Io voglio essere fedele a questa promessa”. .Allora lei mi ha chiesto scusa e ammesso che il bambino era di un altro uomo. Ho sentito che dovevo prendermi cura di questa vita umana. Non importa se la tiro su io o un altro. E’ un essere umano. Ho sentito di prendermi tutta la responsabilità e di seguirla finchè lei ha dato alla luce questo bambino. L’ho chiamato Adeodato, dato da Dio. Adesso mia moglie, anche se deve essere sempre controllata, riceve regolarmete le terapie e ha anche trovato un lavoro presso la casa di accoglienza della missione”.
Anche il cancro sta emergendo come un grave problema di sanità pubblica, ma non viene considerato una priorità nelle strategie sanitarie a motivo di altre sfide più pressanti quali la malnutrizione, la malaria, la tubercolosi, l’infezione da HIV, e fino ad oggi è stato ampiamente trascurato. La maggior parte dei pazienti, per ignoranza, superstizione e soprattutto povertà, vede un medico solo nella fase avanzata di malattia. Mancano gli specialisti. Così è stato per Margaret.
“… La maggior parte delle persone qui non credono che il cancro è una malattia, credono che sia l’effetto di una magia..- racconta un’amica - All’inizio familiari e conoscenti hanno puntato il dito su questa o quella persona dicendo che era una stregoneria, facendo anche nomi...”. Le persone a lei più vicine hanno formato una rete delicata e nello stesso tempo efficace per assicurarle una presenza costante, attenta alla sua sofferenza e alla sua qualità di vita. “Ci siamo proprio accordate di non lasciarla sola un solo minuto- raccontano- , dormire con lei, anche per far fronte alle pressioni della famiglia allargata che diceva che era una stregoneria e bisognava agire di conseguenza. Con questo aiuto ha trovato la pace, era sempre serena, sorridente. Ogni giorno almeno una di noi andava a portarle cibo. Parte del cibo che preparavamo veniva anche mandato a casa sua per i bambini che erano rimasti lì”. Il dialogo con i medici è sempre stato aperto e sincero. Cooperava molto con noi, voleva sapere ad es. quale medicina le stavamo dando e quale effetto avrebbe avuto su di lei. “…Nel nostro ambiente, ci dice un infermiera, morire così giovani e lasciare tanti figli, è un problema così grande che tu non vuoi nemmeno pensarci, mai lo puoi accettare. Alcuni si lasciano morire, ti dicono: non farmi più niente, lasciami stare.... ma per lei non è stato così. Lei parlava con noi, con i medici, dicendo chiaramente come si sentiva ….. questo mi ha incoraggiato molto nel mio lavoro, perché quando ci si trova davanti a pazienti con questo tipo di malattie è difficile, ma con lei era diverso, mi piaceva andarci , parlare di tutto e lei sorrideva”.
Nella concezione tradizionale, la morte, anche se procura tristezza, non è l’annientamento o la fine totale. E’ un passaggio. Il corpo scompare, ma la persona defunta continua a mantenere rapporti con i propri discendenti, comunica con loro, interviene nelle loro vicende, li protegge, approva o disapprova le loro azioni. Questo però dipende dall’impegno profuso nella celebrazione dei riti funebri, che sono il momento più importante della vita di una persona. Se saranno adeguati il defunto potrà continuare la sua esistenza come antenato e resterà pacifico, altrimenti sarà costretto a vagare per il cosmo come anima ostile e vendicativa. I funerali perciò hanno una grande importanza e sono celebrati con tutte le accortezze necessarie. Nel nostro contesto, questo è sempre un momento importante nel percorso di accompagnamento, vissuto e partecipato da tutti quelli che hanno seguito l’ammalato. Si prepara un posto particolare in cui possono sedere e mangiare quelli che lavorano in ospedale.
Tutte queste esperienze ci fanno scoprire la ricchezza di un accompagnamento visto come presenza, condivisione, ascolto : qui non è qualcosa che si fa con gli orecchi, ma col cuore, senza guardare al tempo. Giustamente è stato detto che in Africa non è l’orologio a governare il giorno, ma la relazione.
Un’autorevole voce della spiritualità africana, Sobonfu Some, ha detto“.....In Africa quando si vuole operare una guarigione si parte proprio dall’analisi delle relazioni, perché in base a queste si può capire quanto siamo effettivamente in salute”. Se allora guardiamo alla malattia, alla sofferenza e alla morte, come ad un percorso di relazioni, potremmo ripristinare la centralità della persona nella sua unicità e interezza.
Laura Bazzini