Il lavoro in équipe multiprofessionale è una modalità di lavoro collettivo, caratterizzato dall’interazione di vari interventi tecnici delle diverse figure professionali attraverso la comunicazione verbale e scritta. Nell’équipe sono mantenuti i rapporti gerarchici, l’autonomia e l’indipendenza tecnica, pur nella flessibilità della suddivisione del lavoro. Spesso, per la diversa preparazione e competenza, è attribuito valore diverso alle varie figure professionali e ciò può generare tensioni.
L’integrazione tra le varie figure professionali può avvenire solo se si mantiene una comunicazione rispettosa del proprio e dell’altrui ruolo. L’azione comunicativa ha bisogno della condivisione non solo di premesse tecniche, ma, soprattutto, di un orizzonte etico.
Le interazioni umane nel lavoro devono essere permeabili al mutamento, alla novità, alla ricostruzione. E possiamo aggiungere che devono essere aperte anche all’interferenza del non tecnico, alla saggezza pratica. Forse l’apertura anche a questa saggezza pratica può arrichire la nostra professionalità.
Lavorare in équipe non significa annullare la specificità dei compiti, essendo le differenze tecniche contributo fondamentale alla qualità del servizio da offrire. Pur mantenendo distinte le attività relative alle specifiche competenze, è necessaria una flessibilità che garantisca che alcuni compiti – accoglienza, formazione e conduzione di gruppi educativi e operativi – possano essere svolti da tutti, indipendentemente dalle diverse professionalità.
Nel lavoro multidisciplinare, ogni figura professionale, pur integrandosi con le altre, mantiene un ruolo centrale e pari dignità, per potenziare l’intervento mirato al raggiungimento degli obiettivi prefissati.
Riguardo al lavoro in équipe, vi sono 3 concezioni differenti: nella prima il professionista lavora con la convinzione di piena autonomia, nella seconda ignora l’ambito di autonomia, nella terza accetta il carattere interdipendente dell’autonomia.
Se nel lavoro insieme si punta maggiormente alla specificità dei ruoli, si parla di équipe raggruppata; se invece si pone l’accento prevalentemente sulla suddivisione dei compiti e sulla collaborazione, si parla di équipe integrata.
Nell’équipe integrata coesistono la complementarietà e la collaborazione, nel rispetto dell’autonomia tecnica delle varie figure che, nel progetto comune, non sono indipendenti.
La qualità dell’assistenza sanitaria è direttamente proporzionale alla qualità delle relazioni interpersonali tra le diverse figure professionali dell’équipe integrata e delle relazioni con i pazienti.
Il processo di inserimento delle équipe multiprofessionali nell’assistenza ospedaliera va fatto con gradualità e le difficoltà si superano tramite l’informazione, l’educazione continua e la comunicazione interpersonale all’interno del gruppo.
Conoscere i limiti della propria professionalità e i confini del proprio ruolo è una prerogativa importante quanto l’apertura ad un autentico interesse nell’ascolto dell’altro nella sua dimensione personale e tecnica.
La capacità di ascolto e di dialogo può essere definita un “dispositivo tecnologico” di grande rilevanza, non solo nella possibilità d’integrazione all’interno dell’équipe multidisciplinare e nei rapporti con gli altri all’esterno, ma anche nella qualità del servizio offerto.
2. Un’esperienza personale
Come chirurgo, mi sono sempre interessato alle problematiche dei colostomizzati, però mi accorgevo della divergenza tra i bisogni e le aspettative dei pazienti e ciò che gli veniva offerto dalla struttura ospedaliera.
In particolare, rilevavo che, nonostante le spiegazioni dettagliate durante le visite mediche sull’intervento in sé e le rassicurazioni sulla possibilità di convivere con una stomia (temporanea oppure definitiva), in molti pazienti restavano ugualmente dubbi e timori per via di un’incomprensione momentanea e/o per un’insicurezza sul loro futuro.
E questo nonostante il protocollo prevedesse già un colloquio del paziente con una psicologa prima dell’intervento di stoma e alcuni altri colloqui psicologici, al bisogno, dopo le dimissioni.
Ho pensato di programmare perciò, in aggiunta, anche una visita insieme con la psicologa nel pre e post-operatorio in ospedale. Successivamente ho esteso la visita anche ad un’infermiera e ad una nutrizionista.
Abbiamo così inserito nel nostro protocollo, in caso di necessità di stomia, sia temporanea che definitiva, una visita congiunta pre- e post chirurgica di chirurgo, infermiera specializzata per i colostomizzati, psicologa e nutrizionista, e una loro valutazione del paziente, in équipe, durante il ricovero, ogni 3 giorni.
In aggiunta ai normali controlli di follow up o per complicanze, si è programmata inoltre una riunione mensile in ospedale dell’intera équipe con la partecipazione di tutti i pazienti stomizzati della regione e dei familiari che lo desideravano.
Questi incontri sono occasione di informazione ed educazione sanitaria, ma offrono anche ai pazienti la possibilità di raccontare le loro esperienze di malattia e confrontarsi reciprocamente.
A partire da questi incontri abbiamo trovato uno scopo per il gruppo senza perdere in individualità e specificità, perché ciascuno doveva esercitare il proprio ruolo individualmente e in équipe. Nella riunione tutti accoglievano, ascoltavano e comunicavano le esperienze. Nelle visite ospedaliere si condividevano le idee e negli ambulatori si poteva esercitare la propria specificità.
Avevamo dato inizio ad un gruppo che si interessa dei colostomizzati. Mancava però ancora il passo più difficile: “essere” un gruppo. Man mano che i mesi passavano, gli incontri mensili diventavano sempre più profondi; ogni paziente raccontava la propria esperienza personale quando gli sembrava opportuno, sempre insieme ai professionisti, che raccontavano le loro esperienze personali e professionali. Era il momento di conoscerci, condividere le difficoltà, aiutandoci a superarle oppure, a seconda delle situazioni, a saperle sopportare.
In uno di questi incontri un paziente che avrebbe dovuto subire l’intervento, ha detto che pensava di desistere dalla chirurgia al pensiero che non avrebbe sopportato di convivere con la stomia. Accanto a me c’era una signora operata da oltre 11 anni, che l’ha guardato e ha detto: «Se non fosse per questa stomia, oggi non avrei finito di allevare i miei figli, aiutato a tirar su i miei nipoti; è grazie a questa che posso stare con loro e con voi, la vita è molto più grande di una colostomia».
Quando uno dei pazienti moriva tutto il gruppo ne pativa, e c’era sempre qualcuno del gruppo che si rendeva disponibile a stare accanto alla famiglia. Da queste esperienze è nata una tesi di laurea in psicologia e, cosa più importante, abbiamo iniziato il lavoro di équipe con un unico scopo, ma con specificità diverse. Stavamo costruendo fra di noi la comunione, l’unità pur nella diversità.
Nelle riunioni festive di fine anno per diverse volte abbiamo ricevuto la visita di un professore di Coloproctologia dell’Università di San Paolo e di una musicoterapista che nella città di San Paolo ha iniziato il lavoro con i colostomizzati. Attualmente questa musicoterapista ha avviato un coro che visita le associazioni. Alla fine dell’anno si fa una grande festa di Natale con la partecipazione di tutti. Il coro presenta qualche brano e dopo c’è lo scambio di regali.
Da questa esperienza è stata creata l’associazione dei colostomizzati di Mogi das Cruzes, che riunisce e sostiene i più di 100 colostomizzati della regione (che comprende circa 1,5 milione di abitanti).
di Mateus Rotta