Ritengo che l’aspetto della comunicazione e della relazione tra medico e paziente sia uno dei più importanti nella professione medica, anche per chi, come me, passa gran parte del tempo in sala operatoria. L’esperienza che intendo qui brevemente presentare,
della Onlus IRIS (Insieme per Realizzare Iniziative di Solidarietà) che abbiamo creato al Policlinico “A. Gemelli” nasce dalla constatazione che, ormai, in questo ambito, è necessario un lavoro di squadra nel quale si integrino differenti competenze.
Siamo partiti da una constatazione: oggi purtroppo molte persone giovani sono colpite da cancro, e questo può influenzare significativamente non solo la vita della paziente, ma anche la vita della sua famiglia. Ogni anno in Italia ci sono 52 nuovi casi di tumori ogni 100.000 donne; da una stima che abbiamo elaborato, ci sono almeno 60.000 donne che sotto i 40 anni hanno, o hanno avuto, l’esperienza di un tumore.
La vita di una famiglia, lo sappiamo, è fatta di tappe: il momento del matrimonio, probabilmente la nascita dei figli... Sono tappe che, vissute in maniera fisiologica, sono ben comprese e affrontate, ma quando compare un cancro a volte queste tappe vengono sconvolte. E soprattutto quando a patire è la madre, cioè forse il fulcro di una famiglia, che perde, o rischia di perdere, la propria competenza genitoriale.
Da qui, l’idea di costituire questa onlus, il cui principale obiettivo è preservare e sostenere, appunto, la “competenza” materna durante la malattia – per far sì, cioè, che la madre non perda la propria “funzione” di madre durante la malattia – e poi ridurre l’impatto che la malattia ha su tutta la famiglia, in particolare sui membri più indifesi: i bambini.
Che questo sia importante lo dicono numerosi studi; ma quando abbiamo deciso di dar vita ad IRIS ci siamo resi conto che in pochi si occupano concretamente del problema. Sicuramente un bambino rischia, in queste circostanze, di perdere una figura fondamentale, la figura di attaccamento principale. E questo crea psicopatologie che sono state studiate e che possono avere ripercussioni su tutta la vita futura del bambino. Quindi quello che cerchiamo di fare è preservare, nonostante tutto, la presenza di una mamma, che è momentaneamente malata ma che poi guarirà e che comunque nel periodo di malattia deve rimanere la mamma di quelle persone, e il fulcro di quella famiglia.
Tante sono le figure professionali coinvolte in questo progetto, soprattutto le nostre psicologhe, i medici della nostra divisione, le volontarie e questo ci ha permesso di sviluppare studi di ricerca importanti: la valutazione della qualità di vita, dell’impatto psicologico, l’analisi e la comprensione del sistema italiano, che purtroppo ha molte carenze...
In ultima analisi, si può affermare che IRIS rappresenta un buon modello di gestione, con un’équipe che lavora in maniera coordinata, composta da medici, paramedici, psicologhe, volontarie, personale esperto dell’area fondamentale delle cure palliative. È vero che ogni operatore ha una funzione specifica, ma molte sono le funzioni condivise (tra le più importanti, segnalare pazienti e famiglie a rischio, per una cura “globale” della famiglia). Certo, questo comporta uno sforzo: vuol dire riunirsi ogni settimana, mettere insieme le persone, lavorare, essere amici, condividere le situazioni, però devo dire che gli effetti positivi sono evidenti e che la nostra capacità di cura è migliorata.
In particolare, vorrei soffermarmi su un’interazione in particolare: quella tra l’area delle cure palliative e l’area psicologica.
Come è evidente, in alcuni momenti della malattia, in particolare quelli più avanzati, il dolore è una somma di tanti elementi differenti e richiede dunque differenti figure professionali.
Oggi l’oncologia è cambiata molto rispetto al modello di un tempo, quello di un’oncologia molto aggressiva all’inizio della cura, che poi “abbandonava” il malato per affidarlo ad un’altra équipe che si occupava delle cure palliative. Nel nuovo modello, in continua evoluzione, le due équipe si integrano da subito perché il paziente non deve avere la sensazione di cambiare équipe. Oggi abbiamo farmaci diversi dal passato, terapie di supporto diverse, target con pochi effetti collaterali e che sono attivi e mantengono la malattia più a lungo; terapie di supporto che ci aiutano in maniera consistente, tanto che avrei difficoltà a dire qual è il malato veramente da non assistere più, da non curare più.
Il gruppo di lavoro di IRIS è parte di un sistema in cui il malato-persona è al centro, anche quando facciamo ricerca. Lo sappiamo: non è facile fare ricerca ad alto livello in maniera umanizzata, soprattutto quando la necessità di reperire fondi per portarla avanti ci porta a confrontarci con uffici amministrativi e burocratici da coinvolgere in maniera partecipe... L’esperienza di IRIS è stata fondamentale per farmi comprendere il ruolo e l’importanza dell’interrelazione tra operatori, e anche che questa esperienza– soprattutto in un centro universitario – va coordinata con tutti gli altri aspetti. Occasioni di incontro come questo congresso ci aiutano a rendere scientifico un concetto che dobbiamo acquisire: il desiderio, la voglia di imparare scientificamente a fare comunicazione, senza dimenticare che il cuore non si compra, non si vende, non si impara, ma bisogna cercare di averlo.
(trascrizione dell’intervento)
di GIOVANNI SCAMBIA