un’ipotesi formativa. L’aspetto nuovo che oggi caratterizza il morire è il fatto che per l’aumento delle malattie croniche e degenerative e grazie agli enormi progressi della Medicina che permettono di rallentare i processi patologici,
in molte persone il morire subisce un notevole “prolungamento”.Mentre da un lato, poi, la terapia si scompone in varie fasi altamente tecnicizzate, dall’altro cresce in molti operatori sanitari la sensibilità verso un approccio globale al paziente.
Ci si rende conto, inoltre, che la cura stessa comprende una molteplicità di opzioni, in genere tutte ragionevoli, per affrontare una data patologia; il paziente, adeguatamente informato, dovrebbe poter esprimere le sue preferenze tra le diverse opzioni di trattamento.
La situazione terminale costituisce certo un momento difficile da affrontare sia sul piano assistenziale sia su quello umano. Tuttavia il fatto stesso di concepire la morte non più solo come un evento biologico, ma come una realtà che riguarda l’intera persona e tutta la famiglia, nonché gli stessi operatori, è un passo decisivo per poter aver cura di una persona sofferente.
È un salto culturale: il passaggio da un modello biomedico (in cui prevale l’attenzione per il dato numerico, per l’organo malato), ad un modello biopsicosociale, in cui la malattia non viene separata dalla persona (con la sua dimensione psicologica, emozionale, spirituale), né la persona dall’ambiente (famiglia, ambiente lavorativo e sociale).
Assistere un paziente nella fase terminale della malattia significa condividere con lui le decisioni da adottare, esprimere comprensione, far capire che ci si prende cura di lui anche se il nostro intervento non può essere finalizzato alla guarigione.
Ma prendersi cura di un paziente terminale significa anche un lavoro d’équipe tra i diversi operatori coinvolti: medici, infermieri, psicologo, cappellano…
Sappiamo bene che, proprio per la polipatologia, questi pazienti devono fare riferimento ad operatori sanitari appartenenti a professioni e servizi diversi. Non è raro il rischio di una frammentazione della cura che può rendere molto complicata l’assistenza. È evidente quindi come sia necessaria una presa in carico unitaria del paziente. Un progetto assistenziale individuale e con obiettivi precisi, in cui ogni attore, pur nel rispetto delle specifiche competenze, lavori in sinergia con gli altri attori in modo da creare unitarietà d’intervento.
Va osservato infine che queste problematiche, particolarmente sentite nei paesi “medicamente avanzati”, stanno emergendo anche nelle società ancora tradizionali. L’invecchiamento della popolazione, infatti, è ormai diventato un fenomeno planetario, in quanto interessa non solo i paesi industrializzati, ma anche i paesi in via di sviluppo.
Tutto ciò ha portato ad affermare che attualmente si muore sempre più in età anziana e per «malattie povere di soddisfazione» 1.
È comprensibile come questi mutamenti abbiano fatto insorgere molti interrogativi di tipo sanitario, etico e giuridico inerenti l’assistenza al paziente anziano e in special modo nella fase terminale della vita.
Ma se la cura alla fine della vita da un lato si mostra essere tema estremamente attuale con un vasto dibattito in seno all’opinione pubblica e un grande dinamismo di organi etici e giuridici, dall’altro trova ancora un vuoto o almeno varie “aree grigie” da parte della comunità medico-scientifica (come dimostra il fatto, per esempio, che ancora poche ricerche hanno valutato la qualità delle cure alla fine della vita) 2.
Proprio per dare un contributo all’approfondimento di queste tematiche si è costituito nel 2003, su mandato del Presidente e del Consiglio Direttivo della Società Italiana di Geriatria e Gerontologia, il Gruppo di Studio “La cura nella fase terminale della vita”, i cui componenti sono stati scelti tra esperti o interessati al tema secondo il criterio della multidisciplinarietà. Il Gruppo si ritrova periodicamente presso la sede della SIGG a Firenze.
Il metodo di lavoro è simile a quello del Focus Group: riguardo al tema preso in esame vi è un libero e ampio scambio interattivo tra tutti i membri del gruppo che sono appunto molto diversi per formazione, cultura, professione.
Ogni volta si sperimenta che questa diversità più che essere un limite per il lavoro comune, è anzi un’opportunità che arrichisce e aumenta la professionalità di ognuno e porta ad un risultato finale di maggior qualità e di più ampio respiro.
Un esempio significativo: allo scorso Congresso Nazionale di Geriatria il nostro Gruppo ha curato il Simposio “La cura nella fase terminale della vita”.
Interessante è stata soprattutto la preparazione prima del Congresso. Ognuno, dopo aver preparato la propria relazione, l’ha presentata agli altri membri del gruppo che, con spirito critico, costruttivo, porgevano i propri suggerimenti. Ogni lavoro è stato così sottoposto ad una “revisione” globale che in definitiva l’ha reso veramente espressione di un “pensare comune”, condiviso cioè da tutto il gruppo. Questa per così dire “fatica” è stata però largamente ricompensata; infatti qualcuno dei partecipanti ha definito il nostro simposio uno degli avvenimenti più significativi del Congresso.
Dall’esperienza di ciascun membro del gruppo emerge la forte convinzione che occorrono competenze, preparazione scientifica e umana per aiutare gli operatori sanitari, le persone morenti e i loro congiunti 3. Ma paradossalmente le facoltà mediche e infermieristiche, e le altre scuole per operatori professionali in ambito assistenziale, danno scarsa importanza, almeno in Italia, alla necessità di preparare i loro studenti ad un lavoro che comporta il contatto quotidiano con la sofferenza e la morte.
Per questo motivo il nostro Gruppo ha ritenuto utile avviare una ricerca in ambito nazionale condotta attraverso un questionario su “Gli atteggiamenti degli operatori nell’assistenza alla persona anziana nella fase terminale” rivolto ai geriatri e agli operatori sociosanitari di area geriatrica.
La ricerca ha ottenuto un buon livello di feedback: su 2.000 questionari inviati ne sono stati compilati 1.319 con il 65,9% di feedback, un dichiarato interesse per la ricerca del 34%; il 33% ha anche espresso il desiderio di approfondire l’argomento.
Importanti sono i dati emersi.
È la sofferenza, seguita dal morire da solo e dalla paura, la preoccupazione più diffusa tra i malati terminali. Per quanto riguarda i sentimenti degli operatori, la maggior attenzione nei confronti del morente risulta essere il sentimento più diffuso sia da parte dei medici che degli infermieri. Anche il sollievo del dolore si dimostra essere una preoccupazione primaria, anche se poi la realtà sembra smentire questo dato (altre ricerche mostrano che il dolore nel paziente terminale è sottotrattato).
Da segnalare che un 30% degli operatori si ritiene non adeguatamente formato ad affrontare la morte dei pazienti, dato che sembra confermare il bisogno di formazione ad un lavoro asssistenziale così delicato.
Questi risultati sono stati presentati al Congresso nazionale della Società Italiana di Geriatria e Gerontologia del 2005 nell’ambito della sessione curata dal nostro gruppo di studio.
Parallelamente a questo lavoro stiamo elaborando un progetto di formazione, sempre nell’ambito dell’assistenza al paziente anziano in fase terminale, destinato a tutti gli operatori geriatrici e che vorrebbe costituire un ausilio formativo di orientamento per quanti sono interessati a queste tematiche (pertanto i membri del gruppo si rendono disponibili per soddisfare eventuali richieste in tal senso).
E che sia necessaria una formazione specifica per assistere il morente è innegabile.
Assistere una persona le cui condizioni di salute stanno declinando inesorabilmente, è uno degli aspetti più difficili e contraddittori della nostra professione: la morte è un evento la cui risonanza emotiva è sempre molto forte per ciascuno e può avere un effetto deleterio se siamo coinvolti in una relazione d’aiuto. Pertanto, perché la relazione d’aiuto con il morente sia efficace, bisogna saper comprendere e gestire le reazioni personali di fronte alla perdita di un bene così significativo com’è la vita di una persona; ma ciò può avvenire solo dopo un adeguato percorso formativo che fornisca serenità interiore per saper “vedere” il morente senza fughe o proiezioni.
Anche di fronte al progredire della compromissione fisica e cognitiva, i valori, le emozioni, i sentimenti, l’autentica essenza della vita non declina con la malattia… la relazione è sempre possibile, anche nei gradi più avanzati di dipendenza.
È proprio utilizzando la categoria della «relazione» che anche salute e malattia possono essere viste con occhi diversi: non beni individuali, ma «beni relazionali», cioè beni che prendono senso proprio dal rapporto e dall’incontro con l’altro, dalla capacità di creare solidarietà, interdipendenza, reciprocità.
Infatti vulnerabilità, dipendenza, reciprocità sono elementi costitutivi per una persona che vive in un contesto sociale, perché essere vulnerabili e dover dipendere da altri (come è tipico della malattia), ci lega gli uni agli altri, sia quando siamo noi stessi ad essere dipendenti, sia quando siamo noi a prenderci cura di qualcuno. È percepire se stessi come inseriti in una rete di rapporti interumani significativi che ci valorizzano e ci realizzano sia che siamo sani, sia che siamo malati 4.
di ALBERTO MARSILIO
Bibliografia
1. Petrini M, Caretta F, Antico L, Bernabei R. L’accompagnamento della persona anziana morente, CEPSAG/Università Cattolica del Sacro Cuore, Roma 1994: 95-126.
2. Brock J, Foley MC. Demography and epidemiology of dying in U.S. with emphasis deaths of older persons. Hospice Journal 1988; 13: 49-49.
3. Cester A. Esiste la buona morte in geriatria? Riflessioni su accanimento terapeutico, rispetto della vita e della cura, eutanasia, testamento assistenziale, Studio Vega, Mareno di Piave (TV) 2002: 9-9.
4. Komesaroff P, Norelle Lickiss J, Parker M, Ashby M. The Euthanasia controversy: decision making in extreme cases. The Medical Journal of Australia 1995; 11: 594-7.