Sono trascorsi cinquant’anni da quando ho iniziato la mia vita ostetrica, che era, allora, per lo più rivolta all’assistenza al parto. Poi, i ginecologi della mia generazione sono stati testimoni e hanno imparato, e in qualche modo contribuito a svelare, una gran quantità di misteri della vita prenatale, quella vita che riguarda tutti noi.
E oggi sappiamo – grazie alle tecnologie avanzate – come il bambino, il feto, l’embrione sin dalle prime fasi del suo sviluppo intrauterino, e addirittura ancora prima, durante il suo percorso, il suo viaggio nella salpinge materna, produce un’infinità di sostanze che permettono un dialogo fittissimo tra lui o lei e l’organismo della madre.
Quindi durante la vita prenatale siamo dei grandi comunicatori: comunichiamo ogni nostra necessità, ogni esigenza vitale, e lo facciamo con un’ampia scelta di sostanze: ormoni, fattori di crescita, enzimi…
E quanto più questo dialogo è fitto, tanto più l’interazione e la simbiosi tra l’organismo che si accresce nel corpo della madre e la madre è fisiologico e va a buon fine.
Noi ginecologi abbiamo una grande responsabilità: interpretare, decifrare questo linguaggio e trasmettere questa comunicazione alla madre, perché la madre non riesce a decifrare questi messaggi, non li capisce.
L’organismo materno mette a disposizione tutti i suoi adattamenti funzionali per consentire una crescita armonica, normale, del bambino fino alla maturazione, e poi attivare i meccanismi che lo fanno nascere – perché è lo stesso bambino che decide quando e come nascere.
Quindi noi medici trasmettiamo alla madre che durante la gravidanza non solo il suo organismo è inondato da ormoni e da tutte le altre sostanze che hanno il significato di un linguaggio vero e proprio, ma addirittura che il feto trasmette alla madre le sue cellule e che queste cellule staminali si impiantano nell’organismo materno e vi rimangono per sempre.
E questi sono dei momenti veramente straordinari nella vita di ogni donna e noi siamo custodi del grande miracolo della nascita. E allora, trasmettere alla mamma, soprattutto alla mamma, ma anche al papà naturalmente, questi momenti di scambio, di dialogo intenso, tra l’organismo della madre e l’organismo del bambino che si sta formando, sviluppando, contribuisce a modificare la cultura dell’accoglienza per il bambino che cresce.
Così quando, grazie ai principi delle terapie fetali che oggi sono a disposizione, proponiamo nella fase prenatale un provvedimento terapeutico – per una diagnosi che oggi possiamo fare con i mezzi tecnologici a disposizione –, conoscere questa intima relazione che si è stabilita tra i due organismi facilita enormemente la disponibilità della mamma all’accoglienza di tecniche, di manovre curative, che debbono necessariamente passare attraverso il corpo materno (o attraverso infusioni o addirittura attraverso amniocentesi, cordocentesi… Attraverso tutte queste manovre invasive addirittura si può oggi fare una chirurgia correttiva, esteriorizzando il feto riponendolo poi in cavità uterina in attesa che maturi e che possa nascere). Allora noi ginecologi abbiamo questa grande responsabilità.
Vorrei raccontarvi una storia che ha avuto una grande influenza sulle mie decisioni. È la storia di una mamma che aveva una gravidanza difficile, a causa di una placenta previa che, come tutti sanno, è una patologia della gravidanza estremamente severa, importante.
Era alla 22ª-23ª settimana, c’era un continuo sanguinamento, tutto il nucleo familiare era estremamente preoccupato e premeva molto perché si smettesse di insistere con le trasfusioni alla mamma e con i farmaci tocolitici per evitare che ad ogni contrazione le perdite ematiche continuassero.
Ma, visto che le condizioni materne e fetali si mantenevano stabili, siamo andati avanti con “ostinazione” e questo è stato estremamente difficile perché abbiamo dovuto comunicare moltissimo sia con la mamma che con tutto il nucleo familiare.
Finché si è arrivati alla 26ª settimana e la donna ha partorito in un modo che non avevamo mai visto e che personalmente non ho più visto in seguito, cioè ha espulso prima la placenta e poi è nato il bambino, che pesava poco più di 600 grammi.
Lo hanno avvolto nei panni caldi e l’hanno messo su un fasciatoio, poi si è sentito un flebile vagito. Il bambino è stato curato, seguito, ma successivamente non abbiamo saputo più nulla. Otto anni dopo la signora è venuta col bambino nel mio studio, portandomi anche un regalo di grande pregio. E il bambino mi ha ringraziato perché era il primo della classe.
(trascrizione dell’intervento)
di SALVATORE MANCUSO