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Finora abbiamo discusso esclusivamente delle possibili questioni etiche connesse alla ricerca finanziata dalle case farmaceutiche, ma sarebbe senz’altro riduttivo e scorretto attribuire ad esse ogni responsabilità. Il primo responsabile dell’agire etico è senz’altro il ricercatore che in prima persona è coinvolto nella ricerca. Brian Martisson, Melissa Andersson e Raymond de Vries, tre universitari americani specializzati in etica, hanno posto domande sulla correttezza delle loro ricerche a decine di ricercatori, più o meno giovani, il cui lavoro era finanziato dai National Institutes of Health, un' istituzione di ricerca pubblica. Moltissimi, fra i 3.247 che hanno riposto, hanno dichiarato di avere, in qualche misura, truccato le ricerche. Almeno un terzo ha ammesso di non avere rispettato certe regole etiche negli studi clinici o di aver « coperto » colleghi che utilizzavano dati falsi, o di avere proposto interpretazioni non corrette dei dati stessi. Soltanto una piccolissima percentuale, lo 0,3%, ha confessato di avere completamente falsificato uno studio o di avere copiato un lavoro da altri. Un buon 15% ha dichiarato di avere modificato il progetto, la metodologia o i risultati per la pressione degli sponsor commerciali. Un altro 15% ha rivelato di avere modificato i risultati perché istintivamente non li giudicava veritieri. E oltre il 27% ha detto di non tenere una documentazione dei progetti di ricerca. In America circola un detto nel mondo scientifico: “publish or perish” , pubblica o perisci. Il ricercatore che non pubblica perde visibilità. Il ricercatore che non pubblica perde occasioni di finanziamento. Lo scopo delle pubblicazioni, come in parte si evince anche dai risultati del nostro questionario è spesso quello di ottenere prestigio nella comunità scientifica e finanziamenti per i propri studi. L’etica passa in secondo piano.
Come possiamo noi porre rimedio a questa “disattenzione” nei confronti dei temi etici? Un primo possibile rimedio è quello di non assumere in maniera acritica tutte le informazioni che ci vengono fornite (dalle riviste, così come dai relatori di un convegno o dagli specialisti di un prodotto farmaceutico) e cominciare a verificare ogni contributo partendo dalle fonti degli stessi.
Tre autori M.A Weingarten, M Paul, L. Leibovici si sono posti il problema di trovare un metodo attraverso il quale stabilire l’eticità dei trial e degli studi clinici presentati in review sistematiche. Sebbene infatti, a partire dal processo di Norimberga e dalla Dichiarazione di Helsinki siano stati stabiliti degli standard etici da rispettare, molti studi clinici non si attengono a tali standard o non riportano se si siano attenuti o meno (ad esempio non riportano se sia stato o meno acquisito un consenso informato). Non ci soffermiamo in questa sede sul modo in cui gli autori suggeriscono di verificare l’eticità di un trial (trovate riassunti in questa slide i punti principali e potete verificarli voi stessi sull’articolo pubblicato su BMJ nel 2004) (9), ma piuttosto sul perché sia importante includere considerazioni etiche tra i parametri di valutazione di trial nelle review. Una prima ragione è quella di aumentare la consapevolezza nella comunità scientifica della necessità di elevati standard etici nella ricerca sugli uomini. Tale consapevolezza incoraggerebbe anche i reviewers ad identificare quegli studi occasionali che sono così non etici da porre dei dubbi sulla moralità dell’uso dei risultati degli stessi studi. Una seconda motivazione si basa sulla dimostrazione che informazioni concernenti la qualità etica si sovrappongono in maniera significativa con informazioni centrali quali la validità, l’affidabilità e la possibilità di generalizzare i risultati di una ricerca clinica. In una review di ben 767 trial controllati e randomizzati pubblicati tra il 1993 e il 1995 su NEJM, Lancet, BMJ e JAMA si è osservato che i trial con una elevata qualità metodologica erano anche quelli che con maggiore probabilità fornivano informazioni riguardo gli aspetti etici del loro trial. Si potrebbe quindi concludere che i  risultati dei trial in cui viene espressa una maggiore sensibilità ai problemi etici siano anche quelli più affidabili scientificamente (10).  
Infine volevamo entrare un contesto più ampio, globale (ci aiuterà a far questo il Prof. Santi) e considerare la frattura tra bisogni di salute e i dettami del capitalismo in un contesto globale. L’enorme investimento di risorse in farmaci “altamente redditizi” si traduce in una minore attenzione allo sviluppo di farmaci per popolazioni con un minore “potere di acquisto” (mi riferisco in particolare ai popoli del sud del mondo e a pazienti affetti da malattie rare). Da un punto di vista strettamente medico, i bisogni di un bimbo che soffre di malaria nell’Africa sud-Sahariana dovrebbe avere la priorità rispetto ad un italiano di mezza età che soffre di perdita di capelli, Attraverso il prisma del capitalismo, invece, l’uomo calvo ha un valore d’acquisto maggiore rispetto al bimbo africano. Jurgen Drews, dirigente medico di una delle principali industrie farmaceutiche, si è anche qualificato come particolare conoscitore delle interrelazioni tra etica della ricerca scientifica e mercato del profitto. Egli stesso ha affermato come negli ultimi anni un’ossessiva attenzione ai profitti e l’aumento dei costi del rilancio dei nuovi prodotti, hanno portato le compagnie farmaceutiche a dirigere i loro sforzi della ricerca principalmente verso farmaci detti “me too remedies”, ovvero farmaci diretti verso patologie notevolmente diffuse come l’ipercolesterolemia e l’ipertensione per le quali, peraltro, esistono già numerose potenzialità terapeutiche. Drews propone, quale modello per superare queste emergenze mediche irrisolte, una serie di soluzioni, tra cui una maggiore collaborazione tra partner industriali intergovernativi e non governativi. Uno straordinario esempio di questo tipo di sforzi è stato lanciato dall’Institute for OneWorldHealth, guidato dalla dottoressa Victoria e finanziato dalla Bill e Melinda Gates Foundation. L’Institute for OneWorldHealth accetta donazioni dalle industrie di diritti di brevetto e il servizio volontario di scienziati per sviluppare farmaci che possono essere utili nel sud del mondo. In cambio, le compagnie possono ottenere riduzioni nelle tasse e guadagnare in relazioni pubbliche positive.
Ancora, bisogna ricordare che, in seguito all’aumento degli input relativi alla necessità di una ricerca più etica, molte compagnie farmaceutiche hanno cercato di devolvere parte dei loro profitti nella ricerca sia di farmaci per malattie dei Paesi in via di sviluppo, sia per le malattie rare.
Abbiamo fatto una piccola ricerca ed ecco qui di seguito solo alcuni esempi:
- Merck Sharp and Dohme: Cecità fluviale (Oncocercosi)
- Sigma-tau: malaria
- Novonordisk: emofilia, Word Diabetes Foundation (impegno nel promuovere la conoscenza e la terapia del diabete nei paesi in via di sviluppo)
- Boehringer ingelheim italia spa: finanziamento del progetto DREAM (Drug Resource Enhancement against AIDS and Malnutrition), il programma di controllo, prevenzione e trattamento dell’infezione da HIV e di lotta alla malnutrizione nei paesi in via di sviluppo
- Bristol – Myers: finanzia un programma, nato nel 1999 che promuove la ricerca, la formazione delle comunità e il supporto per le popolazioni dell’Africa colpite dalla piaga dell’HIV/AIDS.
Esemplare è il caso della Merck e della oncocercosi. Si tratta di una terribile patologia che colpisce circa 80 milioni di persone nelle aree più povere dell’Africa, del Medio Oriente e dell’America latina, che determina prurito irrefrenabile e, tra le complicanze maggiori, cecità. Nel 1970 il dott. Campbell, uno scienziato della Merck, cominciò ad effettuare ricerche per sviluppare un farmaco per la cecità fluviale. La Merck vinse un premio per aver devoluto risorse sostanziose per sviluppare il farmaco, senza peraltro avere grandi prospettive di un ritorno economico. L’invermectina, il farmaco sviluppato dalla Merck per combattere l’oncocercosi ha rivelato successivamente potenza ed efficacia contro una ampia varietà di parassiti animali, consentendo così alla Merck di avere contemporaneamente un mercato no-profit e un certo ritorno economico. Probabilmente tutti noi oggi dovremmo ricordare le parole di George W. Merck, il fondatore dell’omonima casa farmaceutica, che nel 1959 disse: “We try never to forget that medicine is for the people. It is not for the profits. The profits follow, and if we have remembered that, they have never failed to appear. The better we have remembered it, the larger they have been.”

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