Simona non parla. È immobilizzata dalla patologia neurodegenerativa che nel corso degli ultimi sette anni le ha irrigidito i muscoli di tutto il corpo. Nessun sconto: è un lento e spietato avanzare della malattia a cui non si può porre rimedio. Una malattia che ti prende e ti incarcera nel tuo stesso corpo, che inesorabilmente sfugge sempre più dal tuo controllo. Per questo il volto di Simona ha assunto un’espressione caratteristica, quasi imbronciata per la contrazione delle mandibole. Un’espressione che tuttavia non riesce a mitigare la profondità e l’armonia dello sguardo.
Rimango catturata dagli occhi: due occhi grandi, che seguono i tuoi movimenti e che sembrano penetrare e leggere nel tuo intimo. Due occhi con i quali comunica: per dire sì li chiude entrambi, li tiene invece fissi quando vuole rispondere con un no. Ti interpellano. Rispondo: “Ciao Simona, io sono Angela, sono contenta di conoscerti”.
I suoi occhi si chiudono per un istante in segno di consenso. E’l’inizio di un nuovo rapporto che si preannuncia già un po’ speciale.
La fiducia
Ricordo tutto il mio impegno dei primi giorni nel cercare di darle fiducia: quando dipendi totalmente da un altro ti fa piacere sapere in che mani finisci… Cerco di essere il più attenta possibile. Capisco che, prima di ogni altra cosa, devo io per prima iniziare a vivere come lei: nello stesso modo in cui lei si consegna tutta a me (anche se, in fondo, perché costretta dalle circostanze), così anch’io devo darmi tutta a lei. “Dimenticare” ad esempio la mia stanchezza, la fretta che inevitabilmente al lavoro ti prende, anche il senso di inadeguatezza che a volte sopraggiunge e compiere ogni attività, dare ogni informazione, ogni saluto, ogni sguardo come non avessi altro da fare.
Ben presto però mi accorgo che non sono tanto io a dare fiducia a Simona, ma piuttosto è lei che la da a me. Mi sembra di cogliere tutto il suo sforzo per farsi capire, tutta la tensione a fare la sua parte, a non farmi pesare i miei errori o la mia grossolanità, tanto da poter dire che fin dall’inizio mai ho avuto la sensazione o il timore di non riuscire a capirla.
Quello che ho impiegato più tempo ad imparare è stato capire quando Simona scherzava. Faceva un rumore con le labbra che non capivo se era una risata o un’espressione di dolore o un semplice richiamo.
Sono sola con lei. Ho già passato in rassegna tutto quello di cui può aver bisogno, dalla posizione dei cuscini all’aspirazione delle secrezioni, dall’ossigeno alla musica del lettore DVD da accendere o alla luce da spegnere… Oggi non riesco proprio a capire cosa mi chiede. Dopo un po’ mi sopraggiunge un sospetto: “Simona, tu sai che ancora non capisco bene quando ridi… Non è che, per caso, … mi stai prendendo in giro?”. E i suoi due grandi occhi si chiudono finalmente in un inequivocabile sì!