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Nel titolo di questo intervento il termine “tutore” si riferisce genericamente a chi è formalmente demandato a “parlare per il paziente”.  Spesso si tratta di un parente stretto, più raramente invece di una persona non legata al paziente da vicinanza affettiva e in questi casi generalmente il giudice tutelare nomina un professionista idoneo o una figura istituzionale (avvocato, assistente sociale,  sindaco, legale rappresentante di un’associazione o fondazione…). Chi rappresenta il paziente è chiamato a dare un giudizio sostitutivo che tenga conto della volontà del paziente stesso (principio di autonomia) e, quando non la conosce, del suo miglior interesse (principio di beneficienza)[4].

Il processo decisionale clinico quando avviene attraverso un tutore non è affatto sovrapponibile a quello che matura nel dialogo con il paziente. Il rapporto a tre che si instaura,  medico-paziente-tutore, è molto diverso e più complesso del normale rapporto medico-paziente[5].

In primo luogo, anche quando giuridicamente il suo consenso agli atti medici è necessario e sufficiente, è utopistico pensare che in questa interrelazione il tutore possa essere solo un portavoce passivo del paziente, è comunque un soggetto attivo, con una sua personalità, sue emozioni e suoi propri obiettivi e valori.

E’ noto infatti che il parere dei proxy, di chi cioè conosce bene la persona, non coincide sempre con quello dell’interessato e che almeno una parte dei caregiver sovrastimi i deficit del paziente[6]. Le reazioni emotive possono influenzare il processo decisionale, in particolare per quanto riguarda le cure di fine vita.  E’ stato messo in evidenza che i giudizi del paziente e di un parente stretto riguardo ai trattamenti in scenari ipotetici di fine vita non concordano in un terzo dei casi e l’accuratezza predittiva non cambia se il decisore sostitutivo è designato dal paziente o ha potuto discutere preventivamente con lui le sue preferenze[7]. Gli errori di predizione rappresentano spesso i desideri del familiare per il proprio caro[8]. Nelle situazioni di incapacità acuta, il timore di dover prendersi cura di un familiare gravemente disabile o viceversa l’incapacità di rinunciare a una persona amata possono incidere inevitabilmente nella scelta di terapie di sostegno vitale. Nelle situazioni di  grave disabilità congenita o malattie degenerative progressive, il tutore si trova invece a prendere decisioni in un contesto di abitudine e scarso coinvolgimento emotivo, ma anche di dolore, perdite e dinamiche familiari di lunga data. Tale differente partecipazione emotiva, così come i valori e le esigenze della famiglia vanno tenute in conto dall’equipe di cura (inclusi anche assistenti sociali, cappellani, volontari, che possono fornire un sostegno) e prese in carico nella relazione terapeutica.

Inoltre, se la maggioranza dei pazienti vuol essere pienamente informata dal medico sulla diagnosi e sulle cure, ma varia notevolmente l’autorità decisionale che vuole esercitare nel processo clinico[9], quando l’alleanza terapeutica è mediata da un tutore, negoziare i ruoli decisionali è ancora più complesso[10]. Il medico, oltre a considerare se una scelta è coerente con i desideri e l’interesse del paziente, deve considerare il ruolo decisionale preferito dal tutore, ma anche i suoi legami affettivi ed emotivi con il paziente, la conoscenza della sua vita, la forza del rapporto giuridico (tutore o amministratore di sostegno). D’altro canto, è eticamente opportuno che il medico assuma un ruolo decisionale più attivo quando ha avuto modo di conoscere bene il paziente.

Ancora, se molti aspetti dell’attuale assistenza sanitaria sembrano oggi minare il  rapporto medico-paziente, per esigenze di  tempo, mancanza di continuità, focus sulla tecnologia piuttosto che sulle relazioni personali,  ancor più il rapporto medico-tutore deve affrontare sfide particolari. In molti casi, in ospedale, il medico può non aver mai incontrato il paziente né tanto meno il suo decisore sostituto prima che il paziente perdesse la capacità decisionale. La costruzione di un rapporto con un “tutore” richiede comunque tempo, che spesso manca nei reparti ospedalieri e nelle terapie intensive. I conflitti nascono soprattutto, infatti, quando il medico e il tutore non hanno avuto opportunità di comunicare tra loro in maniera efficace e costruire un rapporto di fiducia reciproca, prima di decisioni critiche riguardo a cure palliative, hospice, terapie di sostegno vitale[11]. Spesso poi, anche quando vi è un rappresentante legalmente designato, nella pratica i medici si trovano a comunicare e relazionarsi con più familiari per ogni paziente e, a volte, la grave malattia di un parente può accrescere conflitti intrafamiliari preesistenti, rendendo più arduo il consenso intorno a decisioni difficili[12].

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Vuole contribuire all'elaborazione di una antropologia medica che si ispira ai principi contenuti nella spiritualità dell'unità, che anima il Movimento dei Focolari e alle esperienze realizzate in vari Paesi in questo campo.


 

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