Un altro aspetto culturale da segnalare è che oggi il rapporto con la morte è segnato dal tentativo più o meno cosciente di fuggirla, di dimenticarla (indagine su circa 100.000 libri di saggistica mostra che solo lo 0,2% affronta il problema della morte, libri di medicina compresi). Infatti sempre più si ricorre all'ospedalizzazione negli ultimi giorni di vita, anche solo per allontanare l'esperienza morte dalla quotidianità familiare. Sempre più si muore in ospedale, quindi, e questo, come medici e infermieri, ci porta ad avere a che fare con parenti che rifiutano la morte del familiare, non avendo gli strumenti per affrontarla e per accompagnare il proprio caro. Forse non è richiesta alla figura del medico la competenza per supportare psicologicamente paziente e familiare nell'evento morte, ma deve essere fornito lui stesso degli strumenti per comunicarla e per garantire la migliore qualità di vita al paziente fino in fondo. Non può essere lasciata alla singola esperienza personale una formazione così importante, proprio a causa del vuoto culturale di cui anche i giovani medici sono vittime: quello della negazione.
Non si può quindi imputare esclusivamente ai docenti la responsabilità della scarsa educazione del giovane studente in questo tema così delicato, anzi si potrebbe proporre, invece di un insegnamento di tipo frontale, un confronto tra docente e discenti su quello che è lo sfondo culturale di ciascuno, per una formazione circolare che coinvolga entrambe le parti non solo in base alle esperienze professionali ma anche personali.
Probabilmente l’Università non ci prepara a saper gestire la fine della vita di una persona anche perchè è senz’altro importante che ognuno si interroghi e la affronti secondo i suoi valori, i suoi riferimenti spirituali, ma sicuramente sarebbe importante per qualsiasi medico almeno conoscere:
l i meccanismi psicologici che si instaurano nel paziente e nei suoi familiari al momento della comunicazione del fallimento terapeutico e della malattia terminale;
l le strategie psicologiche che possono facilitare l’accompagnamento del paziente e dei familiari, che tengano conto anche dello sfondo culturale e religioso della famiglia;
l le basi fisiopatologiche necessarie per valutare le alternative farmacologiche negli ultimi momenti della vita, e magari una formazione di base sul dibattito etico che le cure di fine vita implicano.
Forse sarebbe importante che tutti cominciassimo a sfidare i ritmi accelerati delle nostre corsie, la corsa alla competizione e all’individualismo per fermarsi ad imparare prima di tutto a fare silenzio e riscoprire il valore dell’ascolto e del “perdere tempo” con un malato. Fare silenzio non vuol dire che non so che dire o che non sto facendo rumore... vuol dire riflessione, meditazione, confronto con qualcosa più grande di me. Vuol dire semplicemente stare accanto al paziente, non lasciarlo solo.