L’accanimento terapeutico: legislazione statale e codice deontologico
Il Comitato Nazionale per la bioetica ha definito l’accanimento terapeutico “come un trattamento di documentata inefficacia in relazione all’obiettivo, a cui si aggiunga la presenza di un rischio elevato e/o una particolare gravosità per il paziente con un’ulteriore sofferenza, in cui l’eccezionalità dei mezzi adoperati risulta chiaramente sproporzionata agli obiettivi della condizione specifica”[17].
I francesi utilizzano il termine acharnement thérapeutique, mentre gli inglesi usano overtreatment. Queste parole stanno ad indicare, più che un preciso e conosciuto comportamento, una ostinazione nel perpetuare un’azione che nel giudizio comune è considerata deplorevole[18].
E’ bene ricordare, inoltre, che nella medicina moderna è frequente un altro tipo di accanimento: quello diagnostico. Molti pazienti vengono sottoposti ad indagini invasive, spesso dolorose, a volte non prive di rischi, senza una concreta prospettiva terapeutica. In pratica l’accertamento diagnostico non si propone l’obiettivo di un beneficio, quantomeno potenziale, ma solo quello di approfondire la conoscenza della patologia in atto e della sua evoluzione[19].
In questo l’apparato tecnologico, che pur ha i suoi indiscutibili meriti, travalica l’interesse della persone e ne fa “un oggetto”. Ciò che si domanda agli operatori medici, in nome del diritto di ogni uomo a una morte umana, è che si rinunci all’accanimento terapeutico: non tutte le risorse per prolungare la vita, di cui la medicina dispone, di risolvono sempre a vantaggio del morente; spesso invece producono solo uno sterile prolungamento della sofferenza e impediscono al morente di vivere la propria morte da protagonista[20].
Si è affermato che l’accanimento terapeutico tende a prolungare ad ogni costo la vicenda biologica, talvolta proprio a discapito della qualità; esso non ha alcuna giustificazione bioetica, ma soprattutto sotto il profilo della dignità della persona e del suo essere immagine di Dio[21]
Tuttavia davanti al 90% dei medici negli Stati Uniti e al 79% di quelli europei, gli anestesisti rianimatori italiani sono quelli che meno di tutti, al di sotto dei 10%, fermano ogni intervento terapeutico nei casi in cui le cure non servano più e il malato sia in uno stato terminale della vita.
Questo atteggiamento estremamente “conservativo” del mondo medico italiano, rispetto a quello di altri Paesi è “il vero dato importante e significativo” emerso da una recente ricerca condotta dall’Università cattolica del Sacro Cuore che ha coinvolto 225 medici dei Centri di Rianimazione di Milano[22].
Ma, nel limitare o nel sospendere le cure intensive, non si deve realizzare l’”abbandono terapeutico”, di deve quindi passare all’attuazione di “cure ordinarie o proporzionate”, rappresentate dalla sedazione, dall’analgesia, dalla nutrizione e idratazione, dalle cure igieniche, dalla prevenzione delle ulcere da pressione, sì da contribuire ad elidere la sofferenza fisica e psicologica del paziente.
Un limite alle cure è pure previsto dall’artico 44 del Codice di Deontologia Medica del 16 dicembre 2006 che afferma: “In caso di malattia allo stato terminale, il medico nel rispetto della volontà del paziente, potrà limitare la sua opera all’assistenza morale e alla terapia atta a risparmiare inutile sofferenza, fornendogli i trattamenti appropriati e conservando per quanto possibile la qualità di una vita che si spegne. Ove si accompagna difetto di coscienza, il medico dovrà agire secondo scienza e coscienza, proseguendo nella terapia finché ragionevolmente utile”.
A tal fine si è coniata l’espressione desistenza terapeutica per definire l’atteggiamento terapeutico con il quale il medico desiste dalle terapie futili ed inutili. La desistenza terapeutica è un concetto che proviene dall’ambito medico dell’anestesia-rianimazione e si applica nei confronti dei pazienti malati terminali. La desistenza terapeutica ha la sua base nel concetto di accompagnamento alla morte secondo dei criteri bioetici e di deontologia medica già stabiliti. La desistenza terapeutica non ha niente a che fare con l’eutanasia, da cui anzi prende le distanze, e vuole combattere l’accanimento terapeutico.
L’effettiva sussistenza di un accanimento clinico-diagnostico, ha peraltro cause molteplici. Se infatti una delle prime motivazioni può essere la difficoltà del caso clinico, incide anche la formazione prevalentemente tecnologica e lo stile professionale medico. L’accanimento terapeutico è coerente con una filosofia che concepisce la medicina come l’impresa umana che contrasta la morte, fino al punto di darle scacco. Dare scacco alla morte è il vanto supremo della medicina degli ultimi due secoli. Per lo stesso motivo si assume tacitamente che il malato chieda alla medicina di far ricorso a tutti i mezzi terapeutici che allontanano la morte. Ancora, l’estrema specializzazione delle branche della medicina conduce alla perdita completa del carattere personale della malattia: non si cura la persona del malato, ma i processi organici disturbati che chiamiamo malattie; il nuovo modello di rapporto medico-paziente, sempre più orientato al contrattualismo di provenienza anglosassone, spinge il personale sanitario a “fare di tutto”, anche quando certe terapie sono inutili, pur di non essere accusati dai parenti di omissioni o negligenze. La paura di conseguenze legali è forse la motivazione più diffusa che spinge il personale medico a qualche forma di accanimento terapeutico. Infatti i giudici tendono ad utilizzare criteri non pertinenti ed astratti, non idonei a valutare l’operato del medico. L’insufficiente chiarezza della normativa giuridico-deontologica attuale incentiva quindi comportamenti difensivi da parte dei medici a scapito dei pazienti[23]. Concorrono tuttavia anche cause obiettive, quali ad esempio, interventi terapeutici su pazienti giunti al Pronto Soccorso, con la parziale conoscenza del caso clinico del paziente e la necessità di rapide decisioni.