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Conclusioni

La buona pratica medica sa che i protocolli scientifici e terapeutici sono sempre da interpretare al letto del malato, che è una persona concreta, una individualità effettiva anche come risposta meramente biologica alle terapie. Di qui un dubbio di fondo su documenti che possono diventare di tipo “giuridico” e a cui, come tali, non si può chiedere di garantire una buona morte o di risolvere il dramma e il limite radicale che tocca la condizione umana[52], e il cui ricorso, in base alle esperienza, almeno negli Stati Uniti, si valuta sul 15-18% dei pazienti. Inoltre la probabile futura conversione in legge delle dichiarazioni anticipate di trattamento, non elimina le necessità di una migliore assistenza medica alla fine della vita.

Un recente documento della International Association of Gerontology and Geriatrics degli Stati Uniti - “Statement of End-of-Life Care for Old People” -  in una visione globale degli interventi per migliorare l’assistenza alla fine della vita considera in primis una migliore formazione degli operatori sanitari, poi lo sviluppo di direttive assistenziali, l’elaborazione di un sistema sanitario che risponda meglio ai bisogni delle persone e dei loro familiari anche nell’ambito delle cure palliative. Si tratta pertanto di assicurare un miglior controllo dei sintomi che possono migliorare la qualità di vita e che possono influenzare il decorso della patologia, un miglior controllo da assicurare in tutti gli ambiti: negli ospedali, nell’assistenza domiciliare, nelle residenze sanitarie assistenziali.    

La seconda parte del documento Statement on ethical aspects for admission to, treatment and care of older persons in Intensive Care Unit” , aggiunge poi che dall’accordo tra il paziente, la famiglia, il medico di famiglia, lo staff infermieristico, il geriatra e lo specialista in cure intensive, può scaturire la decisione di interrompere o iniziare trattamenti (peraltro non specificati) se ritenuti ininfluenti sul decorso della patologia.

Questa parte del documento si può dire che sia motivato dalla constatazione che la morte “naturale” non può più essere il paradigma per un elevato numero di pazienti. Il potere di “intervenire” sulla vita rende sempre più lo staff medico responsabile del modo in cui si muore e del momento in cui si muore. Il ritardo o l’anticipazione della morte dipendono in modo crescente dalla scelta di utilizzare

o non utilizzare, continuare o sospendere trattamenti “artificiali“. Oltre a questo si deve considerare che, a partire dagli anni Settanta, si è sempre più affermata l’idea che tra i diritti dei pazienti vi fosse anche quello dell’autonomia decisionale, cioè il potere di decidere in merito ai trattamenti medici a cui venire o non venire sottoposti anche nel caso di pericolo di morte prossima.

D’altra parte la cura oggi è affidata ad una équipe di esperti, ognuno dei quali ha una propria competenza e specializzazione. Questo è uno degli elementi che hanno contribuito a ripensare l’autorità del medico riguardo alle decisioni terapeutiche, determinando una revisione del potere decisionale che lascia spazio alla negoziazione tra medico, paziente e famiglia.

Oggi, negli Stati Uniti, anche in assenza di un documento esplicito come il Testamento biologico,interrompere le terapie quando non esiste una ragionevole speranza di riportare il paziente a una condizione di vita accettabile e a recuperare le proprie facoltà intellettive non solo è una prassi comune negli ospedali, ma è una possibilità prevista da regole precise, rispettate dagli operatori sanitari senza suscitare alcun clamore o polemica. Ogni giorno capita che ci si trovi di fronte al dilemma se interrompere o meno alcune  delle terapie che, grazie agli enormi progressi tecnologici cui godiamo, permettono di mantenere in vita un essere umano destinato altrimenti a morire. La decisione viene presa di comune accordo tra i medici e i familiari del paziente e solo molto raramente si corre il rischio che si creino dei conflitti[53].

Ma un esempio di “alleanza terapeutica” è possibile indicarla anche in Italia, nel documento Scelte di fine vita rianimazione pediatrica”, quando afferma che “E’ essenziale che le scelte di fine vita vengano elaborate attraverso itinerari decisionali eticamente pensati, adeguatamente argomentati, espliciti e il più possibile condivisi all’interno del particolare “triangolo relazionale” costituito da paziente, genitori ed equipe curante. Il ruolo dei genitori quali naturali interpreti e rappresentanti del miglior interesse del loro bambino, si integra con l’obbligo etico e professionale che il medico ha nei riguardi del paziente di attivare e mantenere esclusivamente trattamenti proporzionati….. Quando, da parte di un componente dell’équipe, dal paziente o dai genitori, viene sollevata la questione della sospensione o del non inizio dei trattamenti di supporto vitale, il medico che ha la responsabilità del paziente e il Primario della Rianimazione devono guidare il processo decisionale e fare ogni sforzo per realizzare l’obiettivo di una decisione condivisa, favorendo in ogni modo una informazione completa dell’équipe curante, dei genitori e del paziente, nonché una comunicazione aperta e tempestiva tra tutte queste figure”[54].

Si può aggiungere che questo processo decisionale può svolgersi anche nel tempo con l’acquisizione dei desideri personali del paziente durante i vari incontri che il processo assistenziale richiede. Attualmente le cartelle cliniche non testimoniano adeguati rapporti tra medico e paziente; inesistenti sono di solito i riferimenti alla morte, pertanto si dovrà cercare di introdurre nella storia dei pazienti dei riferimenti alle volontà anticipate rispettando così la dimensione spirituale della vita[55].

Forse, proprio attraverso il dialogo e la comunicazione “anticipati” all’interno di una relazione che comprende fiducia,informazione, condivisione si riescono ad elaborare quelle dichiarazioni per cui trovare poi quel trattamento “giusto” quando il paziente non è più capace, evitando accanimento terapeutico ed eutanasia.

Il documento della International Association of Gerontology and Geriatrics, già citato, ricorda poi come i pazienti con una lunga storia di malattia, gravemente non autosufficienti, in fase terminale, possono ricevere un migliore trattamento dei sintomi in un reparto di cure palliative piuttosto che in un reparto di cure intensive.

Riconoscere la morte come un evento naturale e come un momento della vita è caratteristica peculiare dell’ethos palliativo, ove si afferma la vita senza che il cammino verso la morte sia prolungato o accelerato.

Una seconda osservazione è che l’incorporazione dell’ethos palliativo nella medicina intensiva può avere un impatto profondo sulle qualità delle cure. L’ethos palliativo potrebbe aiutare a ridefinire la selezione dei criteri per l’assistenza medica intensiva. Ammettere in un reparto di cure intensive un paziente di cui si conosca una prognosi infausta è un frequente errore decisionale che può distruggere tutti gli schemi di un’ assistenza compassionevole e aggiungere solo sofferenze ai suoi ultimi giorni. In alcuni casi particolarmente dolorosi, si potrebbero addirittura ravvisare elementi di inefficienza professionale e di violazione dei diritti del paziente[56]. 

Health Dialogue Culture

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