Se vogliamo che il dialogo non resti una tragica ingenuità, sogno e traguardo irraggiungibile, ci vuole – vedi il mio articolo di marzo – un’adeguata antropologia e un’efficace pedagogia che lo sostenga. Proporrò quindi alcuni princìpi basilari.
Primo. Il dialogo è sempre incontro personale. Non si tratta di parole o pensieri, ma di donare il nostro essere. Non è semplice conversazione ma qualcosa
che tocca gli interlocutori nel profondo. Diceva Rosenzweig: «Nell’autentico dialogo qualcosa accade sul serio». In altre parole: non si esce indenni da un vero dialogo, qualcosa cambia in noi.
Secondo. Il dialogo richiede silenzio e ascolto. Il silenzio è fondamentale per
un retto pensare e parlare. Un silenzio profondo, coltivato con pazienza in solitudine e messo in pratica di fronte all’altro, al suo pensare, al suo parlare. Ecco un bel proverbio indù: «Quando parli fa in modo che le tue parole siano migliori del tuo silenzio». Oggi è più che mai necessario – affermava Benedetto XVI – «un ecosistema che sappia equilibrare silenzio, parola, immagini e suoni». Nell’esercizio del dialogo abbiamo bisogno del silenzio per non logorare le parole stesse.
Terzo. Nel dialogo rischiamo noi stessi, la nostra visione delle cose, la nostra identità, anche culturale. Dobbiamo conquistare una «identità aperta», matura, e allo stesso tempo allenata su un assioma antropologico fondamentale: «Quando ci capiamo con qualcuno, so meglio anche chi sono io». Parafrasando una idea di K. Hemmerle: se mi insegni il tuo pensare, io potrò imparare di nuovo il mio annunciare.
Quarto. Il dialogo autentico ha a che fare con la verità. Ma attenzione: la verità è una realtà relazionale (non relativa, che è diverso). Significa che la verità è la stessa per tutti, ma ognuno mette in comune con gli altri la sua personale partecipazione e comprensione della verità. Quindi la differenza è un dono, non un pericolo. «Il dono della differenza» è un altro pilastro della cultura del dialogo.
Quinto. Il dialogo richiede volontà. L’amore alla verità mi porta a cercarla, a volerla, e per questo mi metto in dialogo. Spesso si pensa che dialogare sia cosa da deboli.
In realtà è il contrario: solo chi ha una grande forza di volontà rischia se stesso nel dialogo. Ogni atteggiamento dogmatico o fondamentalista nasconde paura e fragilità. Bisogna diffidare di chi normalmente ricorre alle grida, usa parole altisonanti o frasi squalificanti per imporre le sue convinzioni. La forza bruta, anche dialettica, potrà vincere ma mai convincere.
Sesto. Il dialogo è possibile solo tra persone vere. L’amore, l’altruismo e la solidarietà preparano le persone al dialogo facendole vere. Gandhi e Tagore avevano un’idea molto diversa del sistema educativo da impiantare nell’India indipendente, ma questo non ha ostacolato la loro amicizia. Papa Wojtyla e il presidente Pertini ebbero, durante un lungo periodo, un’intesa profonda sul destino dell’umanità, eppure viaggiavano su categorie quasi opposte.
Settimo. La cultura del dialogo conosce solo una legge, quella della reciprocità. Solo in essa il dialogo trova senso e legittimità.
Se le nazioni ricorressero al dialogo prima che al tacere omicida della vendetta o della ricchezza o dell’affermazione personale, nuoteremmo nella felicità di cui oggi ci priviamo. Se le religioni dialogassero per onorare Dio; se le nazioni si rispettassero e capissero che la propria ricchezza è fare ricca l’altra; se ognuno percorresse un “piccolo sentiero personale” di novità, ci potremmo lasciare alle spalle la notte di terrore nella quale annaspiamo. Quali gli ostacoli sul piccolo sentiero? Il giudizio, la condanna, la superbia intellettuale.
Il lavoro da fare è artigianale per l’impegno che richiede, senza distrazioni o compromessi, ma è pregno di cultura, più di una professione. È un’attività faticosa e impietosa. Ma ci salva la Misericordia.
Jesús Morán è copresidente del Movimento dei Focolari. Laureato in Filosofia,
è specializzato in antropologia teologica e teologia morale.
Fonte: rivista Città Nuova n. 4/aprile 2016