Una testimonianza a partire dalle parole di papa Francesco sul fine vita. Non sta a noi abbreviare il tempo o accanirci inutilmente contro la morte. Sta a noi donare al morente tutta la forza e la pienezza della nostra vita e della nostra fede, come madri, come padri e come figli.
Quando ho ascoltato le parole di papa Francesco sul fine vita (formula arida, che prescinde dalle persone), ho ricordato le ultime ore di mia moglie e il dialogo con Barbara, donna del Ceis, morta di aids presso l’ospedale di Cisanello a Pisa. Mia moglie Piera stava arrivando alla conclusione della sua giornata. Ero al lavoro: venni chiamato a casa, per vivere le ultime ore con lei. Iniziò una preghiera continua nella sua camera, ma i dolori diventavano sempre più pesanti e drammatici.
Lei aveva discusso con il suo medico la questione della continuazione delle cure, arrivati ormai ad una situazione senza ritorno. Piera aveva sperimentato tutta la fatica e il dramma di una malattia che inchiodava con le sue medicine e nella malattia era chiamata a fare obbedienza sino alla fine. Negli ultimi giorni aveva scelto di prendere solo l’acqua, rimettendosi alle indicazioni del medico. Sempre più forte era l’affidamento alla preghiera, soprattutto nel momento in cui il dolore si imponeva. I medici ci avevano consigliato la morfina in pasticche, per rallentare un dolore che poteva essere durissimo da portare.
Quando si decise di darle la morfina per attenuare il dolore, ci accorgemmo che la pasticca rischiava di soffocarla. Allora andammo in farmacia per prendere la morfina in punture. Nel mentre cercavamo di dare soluzione al problema, arrivò nostra figlia Sara, che si mise accanto a Piera, la prese come in braccio e per un’ora e mezzo la tenne nel suo amore. Il dolore passò, quasi che la forza della tenerezza avesse fatto il miracolo. Dopo un’ora, nel sonno, consegnò il suo spirito al Padre. Non si tratta di raccontare una dottrina o di offrire un modello, ma di confessare il mistero, di accoglierlo nella nostra vita e nella nostra storia di amore. E nella storia e nell’amore di tutti.
Barbara l’ho incontrata nel 1989 a Pisa nel Reparto Malattie Infettive dell’ospedale di Cisanello, dove per sette anni ho svolto un ministero di accompagnamento e di amicizia al servizio dei malati di aids. Ormai arrivata alla fine e, devastata dal prurito, mi pone una richiesta, che è stata unica nella mia vita. Mi chiede di aiutarla a buttarsi giù dalla finestra e a morire. Immediatamente do una risposta superficiale: se ti aiuto, caschiamo tutti e due, essendo io poliomielitico.
Ma comprendo che Barbara mi pone la questione radicale: il perché della mia fede nella resurrezione del Signore e allora le racconto di Gesù, di Colui che ristora coloro che sono affaticati e oppressi, di Colui che è mite e umile di cuore. Lei, pur devastata dal prurito, si rasserena, trova pace, le mie parole le danno consolazione. E meno di ventiquattro ore dopo muore, dopo essersi confessata nella pace.
Due storie che non hanno la pretesa di indicare principi e dottrine, ma di raccontare come si può vivere la memoria del morire davanti a Dio e a chi ci ama. La morte diventa davvero sorella, per chi muore e per chi vive. Nulla è cancellato della sua durezza e drammaticità, ma tutto è custodito dalla forza mite dell’incontro, dove si rende visibile la sovrabbondanza e la dilatazione dell’amore di chi è madre, di chi è padre, di chi è figlio e di tutti gli amici.
Mi colpisce che, per narrare il supplemento di saggezza con cui guardare la storia del vivere e del morire delle persone, papa Francesco parli della parabola del samaritano, una parabola che normalmente viene usata per raccontare gesti di carità.
Dice papa Francesco, con la sua sapienza evangelica: «Occorre dunque tenere in assoluta evidenza il comandamento supremo della prossimità responsabile, come chiaramente appare nella pagina evangelica del samaritano. Si potrebbe dire che l’imperativo categorico è quello di non abbandonare mai il malato».
Ecco il primato costoso e santo della relazione: «L’angoscia della condizione che ci porta sulla soglia del limite umano supremo, e le scelta difficili che occorre assumere, ci espongono alla tentazione di sottrarci alla relazione. Ma questo è il luogo in cui ci vengono chiesti amore e vicinanza, più di ogni altra cosa».
L’amore, la relazione, la vicinanza sconfiggono l’angoscia. Non sta a noi abbreviare la vita, non sta a noi accanirci inutilmente contro la sua morte, ma sta a noi donare al morente tutta la forza e la pienezza della nostra vita e della nostra fede, come madri, come padri e come figli.
Il Signore chiede a noi di vivere come il samaritano, che di fronte all’uomo mezzo morto lungo la strada della vita ha compassione, si prende cura di lui, si abbassa su di lui. Ecco, il malato ha bisogno di questa compagnia e di questa vicinanza, chiede che qualcuno si curvi su di lui, nel tempo della prova suprema, quando il Signore bussa alla nostra porta.
Può accadere che le nostre parole siano le ultime parole sulla vita e sulla morte di un fratello o di una sorella, e allora con molto silenzio ci accostiamo, non per produrre principi e dottrina, ma per vivere la forza inerme della carità.
Da lì nasce la sapienza del Vangelo, dalla carne della sorella o del fratello o del marito o della moglie morente, che si fa parola quando tutto è avvolto nel silenzio del morire.
Davanti alla morte non si fanno le graduatorie o non si danno voti, perché il morire mette tutti in questione. Ma come il Signore, che muore nella preghiera, anche noi nella preghiera viviamo l’ultimo passo nostro e di chi amiamo, senza stancarci, nella intercessione. Ecco la morte buona, ecco la morte dei poveri, la morte dell’ultimo, che è il Crocifisso. Ecco la nostra morte, che ci prepariamo a condividere con l’uomo mezzo morto lungo la strada della parabola.
DI MASSIMO TOSCHI
FONTE: CITTÀ NUOVA