nella terapia occupazionale.La terapia occupazionale è una disciplina che si basa su principi della medicina e delle scienze sociali ed è uno strumento terapeutico che deve essere prescritto dal medico. La terapia occupazionale ha l’obiettivo di aiutare le persone con qualsiasi disturbo delle funzioni motoriche, delle percezioni senso-motoriche, di quelli neuropsicologici oppure psico-sociali ecc. a riacquistare nella vita quotidiana le capacità di azione andate perdute. Essere capace di agire nella vita quotidiana,
Mi chiamo Geraldine De Stefano, lavoro in un grande ospedale generale cattolico a Bonn, in Germania, particolarmente nel riparto Geriatrico.
Sono terapista occupazionale, una professione che in Italia forse non è tanto conosciuta. Così mi permetto di spiegare brevemente questa professione che in Inglese si chiama “Occupational Therapy / OT” e nei paesi europei centro nord invece “Ergotherapie”, una parola scelta con una radice greca, perché la traduzione della parola “occupazione” in tedesco, fiammingo o svedese non rende il significato giusto.
La terapia occupazionale è una disciplina che si basa su principi della medicina e delle scienze sociali ed è uno strumento terapeutico che deve essere prescritto dal medico. La terapia occupazionale ha l’obiettivo di aiutare le persone con qualsiasi disturbo delle funzioni motoriche, delle percezioni senso-motoriche, di quelli neuropsicologici oppure psico-sociali ecc. a riacquistare nella vita quotidiana le capacità di azione andate perdute.
Essere capace di agire nella vita quotidiana, significa essere in grado di svolgere in modo soddisfacente sia i compiti posti autonomamente, che quelli che sono posti dalla vita e dalla società.
Una definizione di chi è una persona riabilitata formulata della WHO (World Health Organisation) mi piace tanto. Dice: “è una persona che è in grado di partecipare alla vita sociale ma non è costretta.” Cioè che è capace di muoversi, di lasciare il letto o la casa per partecipare a una festa, ma che può anche stare da sola a fare quello che vuole.
Io ho studiato terapia occupazionale dal 1974 a un istituto presso la clinica universitaria di Berlino ovest, riparto ortopedico: un luogo classico d’insegnamento medico. Noi terapisti occupazionali abbiamo studiato un esercizio adatto per ogni movimento del corpo e per ogni disagio psichico: bastava trovare gli attrezzi adeguati e ripetere tante volte l’esercizio giusto. Al centro del nostro interesse c’era l’aspetto patologico della persona da curare.
Negli anni seguenti (‘80) noi terapisti occupazionali abbiamo cambiato l’applicazione delle nostre terapie perché anche nella medicina clinica in generale si sviluppava l’idea dei cosi detti “sentieri curativi”, pensando che in questa maniera si potesse ridurre la permanenza in ospedale e aumentare la qualità delle cure. Ogni disturbo, malattia o operazione erano precisamente definite e classificate (DRG’s = Diagnosis Related Groups), Con essi si stabilisce il pagamento della cura.
Anch’io avevo sviluppato con le mie colleghe lunghe liste (“checkliste”) per trattare i disturbi causati di certe malattie.
Questa lista trattava tutti i problemi che io vedevo e immaginavo.
Col paziente esercitavo questo nel tempo previsto. Non mi chiedevo se serviva o interessava,. Ma per esercitare invece un’abilità d’interesse alla persona disabile e che avrebbe imparato volentieri, non c’era il tempo.
Tirando una somma: Con tutta l’esperienza e la massima istruzione professionale dovevo costatare
- Curando una parte solo del paziente spesso non guarisce.
- Spesso si trovava un conflitto tra ciò che pensavo io e quello che volesse il paziente.
- Nel tempo sempre più limitato ho fatto degli esercizi buoni però insignificanti per il paziente.
Non ero più convinta di ciò che facevo. Volevo e dovevo cambiare il mio stile di lavoro.
In quel periodo, ca. 10 anni fa ho fatto due esperienze forti su due livelli diversi: una esperienza molto personale, un'altra su livello scientifico professionale.
La prima: Una domenica io sono andata in chiesa. Lì ho sentito un brano del vangelo (Luca 18,35). Era la storia di un uomo nato cieco. Lui grida, chiede aiuto. Viene Gesù che dice: “Che cosa vuoi che io ti faccia?”
In questo momento mi sono molto arrabbiata. Pensavo che Gesù si comportasse in maniera sbagliata. Io da terapista avrei trovato subito la diagnosi e avrei saputo come agire di fronte a questo paziente, avrei saputo come far terapia! Vedevo davanti a me già la mia checkliste per persone cieche. Gesù invece chiede alla persona che cosa desidera.
Due giorni dopo in ospedale mi è stato presentato un paziente. La fisioterapista già mi avverte: “È uno che rifiuta tutto, vedrai, lui è più duro di un sasso, di terapie non ne vuole sapere.”
Si trattava di un “caso” molto complicato: Un uomo di circa 45 anni, vive completamente solo senza famiglia, ha una grave diabete incontrollabile con la conseguenza di disturbi alla vista (quasi cieco), della sensibilità (polineuropatia), il 2. ictus con una emiparesi spastica del lato destra e un’afasia. Mi ricordo del Vangelo della Domenica. Salutando l’uomo dico: “Io ho una mezz’ora di tempo per lei. Che cosa vuole che io faccia?”
Lui sorpreso mi dice: “Parli con me!”, perché lui essendo solo, senza famiglia, cieco con la difficoltà di pronuncia, non aveva nessun con chi parlare.
Io rispondo: “Ma certo! Raccontiamo …” Lui tutto contento parla con fatica della sua situazione, dei suoi desideri. Più tardi gli dico: “Già che ci sono: gli andrebbe che io esaminassi la sua mano mentre parliamo, perché è la mia specialità?” Lui accetta e alla fine fissiamo l’appuntamento all’indomani. Io vi assicuro che lui è stato il paziente più motivato, più puntuale di tutti, partecipava anche alla fisioterapia …
Ho comunicato questa scoperta alla mia collega e in seguito abbiamo fatto altre esperienze:
- Un paziente ha perso tutta la speranza di un miglioramento dopo alcuni colpi apoplettici. Non vede il senso di riacquistare un'altra volta le competenze necessarie per la vita quotidiana. Nel colloquio diagnostico si avverte per caso che a lui piacciono i “Mon Chéri”. C’è una scatola piena sul comodino, ma non riesce a mangiarli, perché ogni cioccolatino é avvolto in una confezione. Le sue dita non hanno l’agilità per svolgere quest’azione. La mia collega reimposta tutte le sue proposte e “spreca” il tempo previsto per la terapia con lui ad aprire la carta. Il paziente è contentissimo, dimentica il suo rifiuto e non smette finche tutta la scatola è sciolta. Da allora lui si rende conto che una parte sua “funziona” e continua con una propria motivazione a esercitare i cosiddetti ADL (activity of dayly life)
- Un anziano religioso si sentiva distrutto perché non gli era rimasto più nessun compito nell’ambito della sua vocazione. Era depresso, rifiutava tutto tranne il consumo esagerato di farmaci. La sua risposta chiara alla mia domanda: “Che cosa gli piacerebbe fare quando torna nel suo convento?” - “Voglio morire.” Aveva perso il senso della sua vita: dopo il terzo ictus non poteva più né dire la S. Messa né ascoltare le confessioni, predicare o accogliere visitatori alla porta del convento.
Applicando con lui l’assessement di terapia occupazionale, cioè
il processo di raccolta e valutazione d’informazioni che riguardano i suoi problemi, io ho saputo che il suo ultimo compito in convento era ritagliare i francobolli stampati e raccolti per venderli in favore della missione. Durante le due settimane a disposizione in ospedale, abbiamo fatto solo l’esercizio di tagliare con le forbici: trovare il modello adatto per le sue mani, trovare la posizione sulla sedia, al tavolo adatta al suo fisico, riacquistare nel senso neuropsicologico la percezione visuale – spaziale per l’angolo, a dritta, a destra, a sinistra … Noi eravamo centrati su questo, nient’altro. Quest’attività umile, che poteva sembrare marginale, aveva un significato importante per lui; gli dava nuova energia, stimolo, motivazione di vestirsi, di lavarsi, ricominciava a mangiare, respirava, si potevano diminuire i farmaci. Alla fine non solo riusciva a tagliare le buste con i francobolli, ma mi confidava che ha ripreso pure a pregare … Tornava nel suo convento con risultati veramente positivi.
- Valorizzo anche un “no“ alla mia proposta di terapia da parte di un paziente come primissima espressione di una volontà libera = l’ inizio dell’indipendenza. Certamente chiedo se mi permette un altro appuntamento, magari il pomeriggio … Incominciare con ciò che mi offre, anche il suo rifiuto, che poi nella maggior parte significa l’inizio di un rapporto di fiducia.
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In sintesi la nostra esperienza:
Guardare, aspettare, valorizzare, interpretare nel senso positivo tutto ciò che il paziente offre.
Incominciare qualsiasi terapia solo con quello.
Però: eravamo sicure che non sbagliassimo nel senso scientifico? Era giusto, ricercato, approvato ciò che sperimentavamo? Era giustificato “sprecare” il tempo per cose che sembrano marginali visto che la permanenza del paziente diminuisce sempre più: concretamente è prevista ora una permanenza di due settimane in ospedale = al massimo 10 appuntamenti per la terapia?
Mi sono messa alla ricerca.
La mia sorpresa era l’incontro con i nuovi studi universitari scientifici che sono stati sviluppati nel campo della terapia occupazionale. Mi hanno confermato.
1. Ho avuto la possibilità di studiare con il Professor Gary Kielhofner di Chicago, facoltà occupational therapy. E’ morto poco fa.
Il suo modello “Model of Human Occupation Performance” (MOHO) rende evidente i meccanismi che portano la persona ad agire. Non parla di “malato” o “sano” perché queste espressioni non definiscono esattamente lo stato dell’uomo come sappiamo già da Antonowsky con la sua famosa “Salutogenesi”:
Kielhofner parla di
- “habituation” = ciò che la persona sa fare, di cui è capace.
- “volution” = ciò che la persona desidera fare.
- “performance” = la maniera e la qualità con la quale la persona riesce ad agire.
Idee chiave: La persona è cosi com’è, con le sue possibilità fisiche, cognitive ed emotive;
Ogni persona ha e deve avere un compito, anche se fosse minuscolo.
Fa parte del nostro essere avere la voglia di fare qualche cosa.
Ogni persona vive in una situazione, in un ambiente micro o macro cosmico che può esser di aiuto o di ostacolo.
Attraverso l’osservazione e interviste precise il terapista occupazionale può dare forma a questo quadro individuale della persona. Abbiamo a disposizione una quantità di strumenti, di assessement evaluati scientificamente per fare una diagnosi profonda individuale per i vari gruppi di clienti e disturbi.
2. Accanto a MOHO c’è un secondo modello di base sull’agire umano sviluppato dall’associazione dei terapisti occupazionale del Canada.
Si chiama CMOP (= Canadian Model of Occupational Performance). La maggior parte dei terapisti occupazionali che conosco si orienta a questo modello per le loro scelte terapeutiche ed è anche materia fondamentale di studio alle Università, p.e. quella olandese di Heerlen con la quale collaboro seguendo i loro studenti durante la loro stage nel mio riparto.
“Canadian Model of Occupational Performance CMOP”
Vediamo la persona con i suoi diversi lati (cognizione, fisico, emozioni).
Al centro della persona c’è la sua spiritualità che è il motore di tutto: perché vivo, perché agisco? Che cosa è importante per me? Com’è l’impostazione di ciò che vivo o patisco nella mia società? Ho valore anche da malato o da anziano?
E’ uno sviluppo interessante che negli studi sia di medicina sia di psicologia o di pedagogia accresce l’importanza della “spiritualità” nella vita dell’individuo, anche nei paesi dove si da poco valore alla religione.
All’inizio del rapporto terapeutico guardo a questi lati della persona, chiedo come lei stessa si percepisce e che cosa vedo io con l’occhio professionale.
Poi chiedo quali sono le attività, le “occupazioni”, che sono rilevanti per il paziente.
Il primo cerchio indica le attività della persona: prendere cura di se stesso (tutte le ADL /activitys of dayly life), essere produttivo, (che può significare lavorare, ma anche la capacità di dare qualcosa agli altri) e ricreazione (tempo libero, hobby, viaggiare …)
Esempio pratico
Troviamo per esempio spesso in geriatria il problema dell’incontinenza; è addirittura la causa in quasi 80% dei casi per un trasferimento in una casa di cura. Solo in una minima percentuale questo problema ha una causa organica (urologico).
Può essere che la causa sta nel fisico: il paziente è troppo lento perché arrivi al bagno in tempo, ha una debolezza nelle gambe, è cieco e non vede la porta del bagno, forse non riesce a togliersi i pantaloni …
Forse la causa sta nella cognizione: manca la concentrazione, non si rende conto della pressione della vescica, ha dimenticato come agire, non sa come chiamare l’infermiere.
Oppure è depresso e non gli importa più niente, ha perso la speranza o il pudore o lo stimolo.
Quando io capisco il motivo del disturbo e se per il paziente quest’attività (andare in bagno) ha un significato (= lo desidera fare), possiamo incominciare a trovare delle soluzioni: p.e. trovare un metodo migliore per alzarsi, presentare aiuti tecnici, aumentare la capacità di concentrasi, si fa un’educazione per la miczione, segnare la porta del bagno in un colore brillante ….
Così con altri problemi.
Il secondo cerchio indica
- il mondo nel quale si vive (quello fisico / concreto come la propria casa, se è adatta per una persona disabile),
- il funzionamento delle istituzioni (il quartiere, la città, l’infrastruttura, l’accompagnamento civile o sanitario),
- la cultura (come va trattato un ammalato, l’importanza della religione, quale attività va onorata …)
- la rete sociale (chi sono le persone accanto e a disposizione)
Tutti questi sono aspetti da considerare, adeguare o da sostenere.
Per concludere:
Io non mi occupo più in primo luogo dei singoli sintomi delle malattie, ma della capacità dell’uomo a ricominciare d’agire nonostante il suo sintomo.
Il metodo curativo dell’OT si basa sull’idea che la persona, tramite attività e processi orientati all’azione e alla quotidianità, possa sviluppare, mantenere, riacquistare o ampliare le competenze necessarie per configurare la propria vita in modo che essa abbia un senso. In seguito analizziamo insieme in che cosa consistono gli ostacoli, analizziamo i problemi, le mettiamo in una gerarchia e cerchiamo una soluzione.
Lasciando da parte la mia idea (anche la mia competenza terapeutica) nei riguardi del paziente, lasciando da parte i “sentieri curativi”, tanto amati da nostri funzionari sanitari, riesco ad ottenere migliori risultati in un tempo molto più breve. E’ questo che volevo trasmettere con il mio breve intervento.
Voglio ringraziare a questo punto la Professoressa Patrizia Ianes di Verona, impegnata nell’ A.I.T.O. (Associazione Italiana di Terapia Occupazionale), che mi ha aiutato a trovare la terminologia professionale esatta in Italia. A chi è interessato a questa mia / nostra professione, consiglio di leggere la website dell’AITO: www.terapiaoccupazionale.it.
Terminologia
Abilità: caratteristica personale che permette la performance occupazionale.
Attività: una serie strutturata di azioni o compiti che contribuiscono alle occupazioni.
Assessment: un processo di raccolta con cui si ottengono ed interpretano le informazioni che riguardano sia le funzioni che l'ambiente delle persone, utilizzando l'osservazione, gli strumenti di valutazione e le misurazioni, al fine di pianificare l'intervento e monitorare i cambiamenti.
Valutazione: un processo di raccolta con cui si ottengono ed interpretano le informazioni che riguardano sia le funzioni che l'ambiente delle persone, utilizzando l'osservazione, gli strumenti di valutazione e le misurazioni, al fine di pianificare l'intervento e monitorare i cambiamenti.
Autonomia: la libertà di fare delle scelte basate sulla considerazione di circostanze interne ed esterne, e di agire in base a tali scelte
Contesto: la relazione tra l'ambiente, i fattori personali e gli eventi che influenzano il significato di un compito, di un'attività o di un'occupazione per chi la svolge.
Dipendenza: la condizione di aver bisogno di aiuto per svolgere le attività quotidiane in modo soddisfacente
Coinvolgimento: un senso di coinvolgimento, scelta, significato positivo, impegno durante lo svolgimento di un'attività o occupazione.
Ambiente: fattori fisici esterni, socioculturali e temporali che influenzano e strutturano la performance occupazionale
Valutazione: il processo con cui si ottengono, interpretano e valutano le informazioni con lo scopo di dare priorità ai problemi e ai bisogni, per pianificare e modificare l'intervento e per verificare la sua efficacia.
Funzione:
1. Le sottostanti componenti fisiche e psicologiche che sostengono la performance occupazionale
2. La capacità di usare le componenti della performance occupazionale per portare a termine un compito, un'attività o un'occupazione
Abitudine: uno schema di performance nella vita quotidiana, acquisito attraverso frequenti ripetizioni, che richiede minima attenzione e permette una funzione efficiente.
Indipendenza: la condizione di essere in grado di svolgere le attività della vita quotidiana ad un livello soddisfacente
Interdipendenza: la condizione di una mutua dipendenza ed influenza tra membri di un gruppo sociale
Motivazione: una guida che orienta le azioni di una persona verso il raggiungimento dei bisogni
Occupazione: un gruppo di attività che ha un significato personale e socioculturale, è definito all'interno di una cultura e favorisce la partecipazione nella società. Le occupazioni possono essere classificate come cura personale, produttività e /o tempo libero.
Aree della performance occupazionale: categorie di compiti, attività e occupazioni che fanno tipicamente parte della vita quotidiana. Di solito vengono definite come cura personale, produttività e tempo libero.
Componenti della performance occupazionale: abilità e capacità che permettono ed influenzano la partecipazione nei compiti, nelle attività e nelle occupazioni. Queste possono essere raggruppate in categorie, per esempio fisiche, cognitive, psico-sociali e affettive.
Ambiente della performance occupazionale: fattori esterni che richiedono e strutturano la performance occupazionale. Questi fattori sono fisici, socioculturali e temporali.
Esecuzione di occupazione/attività/compito: scegliere, organizzare e svolgere occupazioni/attività/compiti interagendo con l'ambiente circostante.
Partecipazione: coinvolgimento nelle varie situazioni della vita quotidiana attraverso lo svolgimento di attività in un contesto socioculturale
Ruolo: norme sociali e culturali e aspettative della performance occupazionale che sono associate all’identità sociale e personale dell’individuo
Routine: sequenza prevedibile e prestabilita di attività o compiti
Capacità: un’abilità sviluppata attraverso la pratica, che permette una performance occupazionale efficace.
Compito: una serie di fasi strutturate (azioni e/o pensieri) previste per raggiungere un obiettivo specifico. Quest’obiettivo può essere
1. l’esecuzione di un'attività
2. Parte di un lavoro che l'individuo deve svolgere
Volizione: la capacità di scegliere di fare o di continuare a fare qualcosa con la consapevolezza che lo svolgimento dell’occupazione/attività/compito è volontaria.
Geraldine De Stefano
Bibliografia:
WHO (2001) International Classification of Functioning, Disability and Health (ICF). World Health Organisation, Geneva, Switzerland
Kielhofner, Gary: MOHO (1995/2008) Model of Human Occupation, Theory and Application (Lippincott Williams & Wilkins, Baltimore/MD)
Department of National Health and Welfare, Canadian Association of Occupational Therapists: Intervention Guidelines for the client-centred practice of occupational therapy; Department of National Health and Welfare, Ottawa (1985)
Bundeszentrale für gesundheitliche Aufklärung: „Was hält Menschen gesund?“ Antonovskys Modell der Salutogenese
Jerosch-Herold et.al: Konzeptionelle Modelle für die ergotherapeutische Praxis, Springer-Verlag (2009)
Hack, Birgit Maria: Ethik in der Ergotherapie, Springer Verlag (2004)
Oßwald Anja, Göbl K.: Spiritualität in der Ergotherapie, Ergotherapie & Rehabilitation 11/2006, S. 17-21
Ferber R. et.al.: Tatkraft – Gesund im Alter durch Betätigung, Schulz-Kirchner-Verlag (2012)