Nei casi descritti nella letteratura emerge che è impossibile utilizzare una metodologia univoca. La nostra esperienza ci porta a sottolineare che curare l’ascolto e l’accoglienza della famiglia nelle diverse situazioni (diagnosi di malattia più o meno grave) aiuta a trovare l’approccio migliore su come comunicare
la diagnosi di malattia.
Ciò perché ogni realtà familiare è diversa dalle altre per stato socioculturale, aspettative di salute, credo religioso, richiedendo pertanto un approccio personalizzato.
1.Introduzione
La tematica della comunicazione è oggi particolarmente attuale e riveste sempre più un ruolo cruciale all’interno della pratica medica e della relazione medico-paziente.
La peculiarità del rapporto comunicativo in Pediatria è che esso si svolge primariamente fra pediatra e genitori. Dare il messaggio di un figlio malato a dei genitori non è un istante, un momento, una frase che si apre e si chiude, ma è un processo lungo che può richiedere tutto il tempo di un’ospedalizzazione e di eventuali controlli. Circa la chiarezza delle informazioni da dare, l’approccio è ad un tempo semplice e critico: dosare l’informazione rendendola facilmente comprensibile è l’obiettivo principale che va tuttavia coltivato non penalizzando l’esaustività dell’informazione stessa. Ciò vale sia per la comunicazione di problemi di salute risolvibili che per patologie infauste o croniche. In quest’ultimo caso utilizzare le parole e i gesti più appropriati è importante per gettare le basi solide per una presa in carico efficace del bambino e della sua famiglia e quindi per una maggiore “alleanza terapeutica”.
Il pediatra si rivolge secondariamente anche al bambino qualora l’età e le capacità intellettive lo permettano. Una relazione accogliente ed empatica agevola il piccolo paziente e la sua famiglia nella consapevolezza della patologia e del disagio emotivo che ne deriva.
Dati della letteratura dimostrano che una buona capacità comunicativa del medico è in grado di migliorare sia l’aderenza del paziente alle cure, sia il decorso della malattia.
Riportando alcune esperienze personali abbiamo preso in considerazione le modalità di approccio nella comunicazione della diagnosi.
2. Casistica personale
Nella nostra pratica quotidiana ci troviamo nella condizione di dover comunicare diagnosi di malattie comuni, come ad esempio infezioni respiratorie ricorrenti, infezioni urinarie, ecc., e di malattie infauste o croniche/invalidanti.
Nel primo caso è importante sottolineare come anche una diagnosi di patologia risolvibile può suscitare nella famiglia un vissuto alterato: rifiuto della diagnosi (che sottende la negazione del problema da parte dei genitori), incredulità (ricorso reiterato a pareri di altri colleghi), collera (perdita di fiducia nella gestione medica del figlio) e apatia (supina accettazione delegando completamente al medico la gestione dei problemi medici del bambino) 1. Il nostro primo approccio in questi casi è stato quello di mostrare, sin dalla raccolta dei dati anamnestici, disponibilità al dialogo, valorizzando anche le sfumature, senza banalizzare o sottovalutare, ridonando poi alla famiglia il frutto del lavoro fatto insieme. Abbiamo inoltre cercato di coinvolgere i genitori nel piano di cura, sottolineando l’importanza di un loro ruolo attivo che si è rivelato in molti casi efficace.
Quando ci troviamo invece nel contesto di una malattia cronica (lavoriamo in un ospedale pediatrico di 3° livello dove afferiscono patologie croniche respiratorie: fibrosi cistica, SMA…), un momento fondamentale (forse il più importante e il più difficile) è proprio la comunicazione della diagnosi. Prima dell’incontro con la famiglia, il team che si prenderà cura del bambino si riunisce e offre a tutti, in uno scambio reciproco, ciò che dal suo “osservatorio” potrebbe essere utile per un migliore approccio. Anche se sarà il medico a dare ai genitori la notizia, egli si farà voce del team assistenziale, sarà l’espressione di una unità costruita prima. Questo primo momento segna l’inizio di una relazione tra la famiglia e il Centro di cura che durerà tutta la vita. La prima comunicazione di diagnosi non può mai essere improvvisata, va programmata ed eseguita con calma, nel tempo necessario, in ambiente idoneo, rivolta, oltre che alla famiglia, al paziente, anche se piccolo. Un bambino di 5-6 anni riesce benissimo ad accogliere dal medico informazioni circa la sua malattia, logicamente offerte con sistemi e materiali idonei alla sua età. Il nostro sforzo è stato poi quello di non vedere questo evento come un fatto che si compie, che si chiude, che non si ripete più: la comunicazione della diagnosi significa l’inizio di un rapporto, di un’”alleanza” con il malato e la famiglia con lo scopo di affrontare e controllare la malattia. Il tipo di messaggio che si può dare sin dalla prima comunicazione di malattia cronica e/o di handicap (e che va poi rinforzato nel tempo ad ogni nuovo incontro di un percorso che va comunicato e offerto) è di fondamentale importanza per dare una motivazione positiva a questa nuova sfida che la vita propone alla coppia e alla famiglia.
Quando nel contesto familiare irrompe la diagnosi di una malattia cronica, potenzialmente mortale o invalidante, la famiglia dapprima subisce un grave shock, poi, se aiutata a “prendere in mano” la malattia, si riorganizza, si pone altri obiettivi, cambia taluni comportamenti che possono aiutare ad accettare la situazione.
È chiaro che ogni famiglia, di fronte a problemi uguali, ha reazioni diverse per durata e intensità.
Riteniamo utile consegnare del materiale informativo sulla specifica patologia, reso in modo semplificato ma realistico, che in momenti successivi potrà aiutare i genitori o il ragazzo a trovare le risposte a domande che non hanno avuto la prontezza di rivolgere nel primo colloquio o ad elaborarne altre specifiche per il proprio caso.
È fondamentale saper trasmettere ai due genitori e agli altri componenti della famiglia l’importanza di scalare “insieme” questa cima con la certezza che, quando verificheranno quante risorse quel figlio e l’intero nucleo/contesto familiare hanno saputo trovare dentro di sé, da questa “cordata” il nuovo panorama potrà essere più bello e sereno. Quanta soddisfazione e pace riscontriamo in quelle famiglie che vedono sbocciare, anche in un campo di dolore, stupendi, inaspettati fiori, fecondati dall’amore reciproco e dalla condivisione dell’attesa e della vittoria.
3. Discussione
Il pediatra non è specialista d’organo ma di una fascia di età, e questa attenzione primaria al bambino e alla sua famiglia è insita nel suo lavoro 2.
L’annuncio di malattia rappresenta un momento estremamente delicato che rimane profondamente nella memoria del nucleo familiare. Molti genitori ricordano per tutta la vita il dolore, il senso di estraneità e il vuoto provato nel momento della comunicazione di diagnosi di malattia del figlio. È importante che il modo di relazionarsi del pediatra non sia la semplice applicazione o replicazione di modi acquisiti e consolidati, ma il frutto di quanto si sviluppa nella relazione con quel particolare paziente e quella particolare famiglia. È indispensabile a tal fine dare disponibilità di tempo e di ascolto e avere una buona capacità di accoglienza per interpretare i bisogni del bambino e dei genitori. Risulta necessario calarsi nei modi di pensare e di vivere la malattia nei soggetti stessi. Ruolo rilevante giocano quindi la condizione sociale della famiglia, la conoscenza della lingua, le abitudini culturali, il credo religioso 3.
In una ricerca sulle malattie croniche in pediatria, svolta negli anni Novanta su un campione di 22 ASL su tutto il territorio nazionale, colpisce che il 20% delle famiglie cambia medico o centro di riferimento dopo la comunicazione della diagnosi e che i problemi più frequenti segnalati dai genitori sono relativi alla comunicazione: poca chiarezza informativa, poca disponibilità 4. In un altra ricerca, svolta nella provincia di Bologna nel 1998 con un’intervista a medici e a genitori, emerge ancora che la maggior parte dei medici preferisce parlare con il solo padre e che i luoghi scelti sono inadatti; dalle risposte dei genitori si evidenzia che alcuni medici sono stati vaghi e poco chiari nell’esporre il problema, altri hanno dato informazioni essenzialmente negative e con note di commiserazione per il futuro del bambino e della sua famiglia 5.
I risultati di queste ricerche mettono in luce le grandi difficoltà che incontrano i medici nell’affrontare il momento della prima comunicazione. Tentare di migliorare il momento della prima comunicazione, riducendo il rischio di incomprensione e di distacco fra i protagonisti di questo scambio, significa cercare di definire alcuni criteri che orientino il colloquio, trovando un punto di equilibrio fra la codifica rigida dei comportamenti da tenere e la totale improvvisazione legata al buon senso e alla disponibilità personale dell’operatore 6. Molti Autori sottolineano anche l’importanza del comunicare la diagnosi ad entrambi i genitori congiuntamente, modalità non sempre usuale. Comunicare la diagnosi a uno solo dei genitori significa lasciarlo solo in preda al suo dolore e delegargli l’onere di dover comunicare la notizia drammatica all’altro, che a sua volta potrà sentirsi ingannato e sottovalutato.
Diversi protocolli clinici e carte dei servizi 7 fissano alcuni principi essenziali per l’assistenza ai bambini disabili e alle loro famiglie che definiscono anche i contenuti fondamentali della consegna della diagnosi: nome corretto della malattia, opzioni di trattamento, prognosi prevedibile. A queste informazioni dovrebbe accompagnarsi l’informazione sulle strutture sanitarie e sulle reti di supporto sociale. La correttezza dei contenuti non elimina del tutto il problema delle difficoltà dei genitori a capire quanto viene detto. L’elaborazione della diagnosi comporta un lungo metabolismo e le cose vanno dette e ridette 8. Per questo è molto importante che il momento della prima comunicazione sia l’inizio di un percorso, un tempo per dare tempo, un momento in cui vengano previsti ulteriori appuntamenti, dopo che i genitori abbiano potuto ripensare le informazioni e formulare meglio le proprie domande. Un tempo necessario anche al medico per valutare quanto i genitori hanno realisticamente compreso, se si trovano in una posizione di minimizzazione o se si rappresentano la situazione in termini più tragici della realtà.
È bene permettere alla famiglia di consultare altri centri e altri specialisti, magari accompagnandoli e proteggendoli in questa ricerca 8.
4. Conclusione
Nei casi descritti nella letteratura emerge che è impossibile utilizzare una metodologia univoca. La nostra esperienza ci porta a sottolineare che curare l’ascolto e l’accoglienza della famiglia nelle diverse situazioni (diagnosi di malattia più o meno grave) aiuta a trovare l’approccio migliore su come comunicare la diagnosi di malattia. Ciò perché ogni realtà familiare è diversa dalle altre per stato socioculturale, aspettative di salute, credo religioso, richiedendo pertanto un approccio personalizzato.
Anche la relazione del medico con il team curante e con i colleghi consulenti gioca un ruolo chiave nella comunicazione al paziente in quanto fonte di confronto e luogo dove guardare al paziente in tutta la sua interezza e per donare a lui un messaggio unitario.
Consapevoli che possiamo fallire nel nostro processo di comunicazione o per motivi legati alla complessità della situazione o per nostre incapacità emotive e/o caratteriali (troppo coinvolgimento o troppo distacco) resta saldo il principio di cercare di creare un rapporto che sappia superare le difficoltà concrete e sappia sempre rinnovarsi.
Impostare il momento della consegna della diagnosi seguendo alcune regole di contesto, delimitando i contenuti della comunicazione, ascoltando e accogliendo le emozioni dei genitori e le proprie, sottolineando le risorse della situazione, significa per noi, tentare di gettare un ponte fra passato e futuro e avviare la ricostruzione dopo la catastrofe. Si tratta di mettere in moto da subito quel lungo e complicato processo che permette ai genitori di tessere nuovamente l’appartenenza, di ri-conoscere il proprio figlio e rincontrarlo in quella che Pontiggia chiama la «seconda nascita» dei bambini con malattia cronica.
di LUISA DE CRISTOFARO e ROSANNA CORDIALI
Bibliografia
1. Bugio GR, Notarangelo LD. La comunicazione in pediatria. Un pediatra per la società. Utet Periodici, Milano 1999.
2. Gangemi M, Elli P. Pediatria e comunicazione: come si cambia. Medico e Bambino 2005; 4: 235-8.
3. Masera G, Chesler M, Jancovic M et al. Guidelines for the communication of the diagnosis. SIOP Working Committee on Psychosocial Issues in Pediatric Oncology.
4. Gruppo collaborativo per lo studio della patologia clinica in Pediatria. Le malattie croniche in pediatria. Epidemiologia clinica e assistenziale. Medico e bambino 1994; 2: 24.
5. Follo D. Comunicare l’evento. HP 1998; 68: 10.
6. Di Pasquale G. Dottori diversi. HP 1996; 49: 36.
7. Ciotti F. Lavorare per l’infanzia. Franco Angeli, Milano 2002.
8. Polletta G. L’apocalisse del mondo per i genitori del bambino anormale. AUSL Ferrara 1986.