SULLA TERMINALITA’ ALLA LUCE DELLA COMPRENSIONE DEL MISTERO DI GESU’ ABBANDONATO IN CHIARA LUBICH Sono medico da quasi trenta anni e posso dire di conservare intatta la motivazione ini¬ziale della mia scelta, anche se la vita mi ha insegnato, a volte duramente, cos’è la sofferenza, costringendomi all’onesta ammissione dei miei limiti umani e professionali. Nel tempo l’esperienza lavorativa sul campo ha prodotto sì molte risposte, ma forse ancor più interrogativi, per la crescente esigenza di abbracciare, nella mia vita professionale, al di là della malattia, l’orizzonte di tutto l’uomo.
Per questo ho avvertito la necessità di rimettermi in discussione, di ampliare le mie conoscenze, alla ricerca di nuove piste da percorrere, soprattutto in quei campi dove i confini possono apparire incerti, là dove l’esistenza umana si manifesta nella sua estrema fragilità. Le certezze del mio credo professionale, le basi delle scelte quotidiane, la buona volontà dell’ agire comunque e sempre anteponendo il bene del paziente a quello mio professionale, hanno bisogno oggi di radici più profonde, radici che s’intreccino, nella terra buona della retta conoscenza, con quelle degli altri, in uno scambio di linfa vitale, che ci aiuti a far germogliare un pensiero comune su tematiche così stringenti come quella della cura alla fine della vita.Questa mia riflessione parte da una scoperta: attraverso il carisma di Chiara Lubich, ho avuto la grazia di riconoscere una nuovissima presenza di Dio nella mia vita, Dio che è Amore (cfr. 1 Gv 4, 8). Di fronte agli interrogativi che la sofferenza suscita ho trovato una risposta.
Chiara Lubich mi ha insegnato a riconoscere in ogni dolore un volto particolare, quello di Gesù che in croce grida: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (cfr. Mt 27, 46; Mc 15, 34). Nel corso della sua vita Ella ha penetrato in profondità questo mistero che, come afferma p. J. Castellano: «È la ‘passione della passione’ di Gesù, il suo altissimo dolore spirituale, in cui sono contenuti e fusi tutti i possibili dolori dell’umanità» . Partendo da questo mistero di dolore/amore ho iniziato una riflessione sulla terminalità, descrivendone alcuni percorsi, in oncologia, geriatria, nella demenza e nella SLA, con l’intenzione non tanto di approfondire le singole patologie quanto di ricercarvi quegli elementi che configurano la condizione di « sofferenza globale/dolore totale» del paziente terminale. Ogni malattia, specie se si protrae nel tempo o se reca disturbi invalidanti, comporta sofferenza, tuttavia la comunicazione di diagnosi di malattia a prognosi infausta, o di recidiva, o di terminalità, comporta implicazioni di sofferenza del tutto peculiari per la persona (e per la sua famiglia), per il sommarsi e rafforzarsi sinergico degli effetti dell’insieme della sofferenza fisica, psichica, affettiva, sociale, culturale e spirituale . Se «la salute è l’abilità a vivere la propria vita nelle sue piene potenzialità» quale dolore esistenziale pervaderà la persona che dovrà includere la prospettiva della morte nel suo futuro, con l’angoscia della previsione di ciò che la precede, in termini di progressiva riduzione della sua integrità psico-fisica e della sua autosufficienza fino a dover dipendere dagli altri, fino all’accudimento totale? Questa angoscia di morte è soprattutto paura delle sofferenze fisiche che possono precederla, paura della solitudine, paura di essere abbandonati, acuta sofferenza per il distacco da chi amiamo e da ciò che abbiamo amato nella vita, angoscia che fa percepire il futuro come disintegrazione della propria identità, come un precipitare nell’ «horror vacui» . Si apre uno scenario complesso ed inquietante, in cui i soggetti della relazione terapeutica, paziente e medico, si trovano ad interagire. Il primo che, reso consapevole della gravità della sua condizione, «si vede precipitare in un abisso di paure, incertezze, in cui è messo in discussione il suo stesso continuare ad esistere» , e il medico che, ferito nella sua potenzialità di curante, deve confrontarsi con il limite stesso della sua capacità terapeutica . I sintomi di un paziente in fase terminale sono sostanzialmente simili indipendentemente dalla traiettoria di patologia, e su di essi si concentra primariamente l’attenzione dell’équipe curante nell’intento di portare sollievo. Accanto al dolore fisico esistono tuttavia altre componenti di sofferenza, che configurano il dolore totale, come quella psicologica: «si verifica un improvviso cedimento del ground, cioè della sicurezza corporea che appartiene ad ogni essere umano» . Elisabeth Kübler Ross ha elaborato un modello a cinque fasi per comprendere le dinamiche psicologiche della persona cui è stata diagnosticata una malattia terminale ; va da sé che, per la dinamicità stessa dell’esperienza umana e – vorrei aggiungere – per l’interazione dell’uomo con i suoi simili, queste fasi non sono rigidi stereotipi separati nel tempo, ma emozioni che fluiscono e si possono sovrapporre in momenti diversi del percorso di malattia. Esiste anche la sofferenza affettiva per il doversi distaccare dalle persone che abbiamo amato di più nella vita; le Lettere sul dolore di Emmanuel Mounier (Rizzoli, 1995) parlano di questo dolore esistenziale.
Se la dimensione spirituale può essere definita come il principio vitale che pervade l’intero essere di una persona e che integra e trascende la propria natura biologica e psicosociale, questa dimensione spirituale non va dimenticata nella cura del paziente terminale. La sofferenza spirituale richiede di essere ascoltata anche quando non viene esplicitata chiaramente ma espressa con segnali da decifrare e che sottendono la domanda di fondo: quella di comprendere il senso della propria situazione . In un interessante articolo dal titolo The spiritual dimension of cancer care, gli Autori affermano che la spiritualità può essere una delle più importanti risorse sia per i pazienti che per i clinici e che quei professionisti che coltivano la propria spiritualità hanno maggior sensibilità per riconoscere, comprendere e provvedere alle necessità spirituali dei propri pazienti . Nelle conclusioni di un lavoro dedicato ad esplorare le varie componenti del dolore del paziente terminale oncologico, gli Autori (Filiberti et al, 2011) offrono spunti qualitativi per una riflessione su quanto siano importanti le dimensioni spirituali e psicologiche del dolore totale e come sia necessario offrire risposte anche per questo tipo peculiare di sofferenza. Occorre ricercare ancora la strada per accogliere le necessità dei pazienti perché ci si muove in un ambito in cui la conoscenza non segue le basi del nostro abituale agire clinico . Sono necessari nuovi parametri e un nuovo linguaggio per rispondere a questa domanda che ci interroga: «l’addentrarsi nei domini del dolore spirituale ci lascia spesso impotenti anche da un punto di vista linguistico, perché ci rendiamo conto di quanto sia difficile trovare parole che non siano ostacolo ma veicolo di relazione tra operatori e tra operatore e paziente […] Confondere le due sofferenze può portare all’attivazione di risposte terapeutiche inadeguate […] a sua volta rimanda a quesiti di natura clinica, come: quale spazio dare al dolore spirituale nella relazione terapeutica?» . Il nostro impegno è dunque quello di riconoscere, accogliere, sollevare, queste varie sfumature del dolore globale, per mantenere viva la speranza: «è la speranza che salva l’uomo, qualsiasi forma di speranza; senza questa l’uomo cade nel baratro della disperazione, del nulla» . Entrando nella comprensione del mistero di Gesù Abbandonato, ho cercato di tratteggiare, nel suo aspetto sfigurato, in quella Passione che sfida la nostra comprensione, i connotati del dolore di ogni moribondo, dolore da Lui sperimentato crudamente e realmente. Chiara Lubich ha scelto, nella sua vita, di amarlo nelle prove personali e nei dolori dell’umanità, con un’immedesimazione progressiva, una penetrazione sempre più profonda del mistero tanto da farle dire che Gesù Abbandonato è la «luce stessa della conoscenza» . La scelta esclusiva di Lui è stata il motore di un’intelligenza d’amore che l’ha fatta entrare oltre “la piaga”. «Ho capito che esisteva nel Tuo Cuore una piaga recondita, sconosciuta, mai scoperta, tutta spirituale, di fronte alla quale la piaga del Costato mi sembrava ben poca cosa. Era la piaga dell’abbandono: il Trauma terribile della Tua anima» . Un amore che intuisce le infinite ricchezze di un Dio che, dalla croce, nell’estrema spogliazione, fa “dono perfetto” di sé . Chiara Lubich lo vede così vicino così alla condizione di creaturalità e finitezza dell’uomo da dire: «Tutto ho fatto tramontare del mio …tutto! Non sono più bello; non più forte; qui non ho più pace; quassù la giustizia è morta; la scienza non si sa; la verità scompare» . Scrive G. Rossé: «Quando egli ebbe la certezza di essere condannato al supplizio della croce entrò in una notte tremenda, nella notte del silenzio di Dio. Tale notte lo ha accompagnato durante tutta la passione fino alla morte. Non è opportuno limitare l’esperienza di abbandono vissuta da Gesù crocifisso a qualche istante passeggero prima della morte; essa caratterizza l’intero cammino verso la morte dandole il suo significato ultimo» . Come non vedere in questa esperienza di abbandono quello che può vivere un malato che prende coscienza della propria terminalità attraverso i messaggi che arrivano dal doversi distaccare progressivamente dalla vita? «Abbandonati con Lui abbandonato, tenebra e noia e freddo e aridità e disperazione e distacco e angoscia e fame e dolore… con Lui che queste cose impersonava» . La persona che intuisce di essere prossima alla fine si trova - come Gesù abbandonato - sospesa in uno spazio che è nulla, perché privo di futuro . Entra nel tempo del morire, una stagione dalla durata incerta, in cui la vita stessa sembra essere sospesa. « Gesù abbandonato è la ’figura’ del muto: non sa più parlare […] È la figura del cieco: non vede; del sordo: non sente. È lo stanco che si lamenta. Sembra rasenti la disperazione. È l’affamato […] È pauroso, disorientato. Gesù abbandonato è la tenebra, la malinconia, il contrasto, figura di tutto ciò che è strano, indefinibile, che sa di mostruoso, perché è un Dio che grida aiuto!» . Nella tesi dò ampio spazio a racconti di vissuti professionali. Da queste persone ho ricevuto molti doni. Alcuni di loro sono riusciti a compiere in pienezza il proprio percorso di vita perché nell’esperienza di terminalità hanno riconosciuto, accettato, Gesù abbandonato, trasformando quel dolore in amore. Sono testimoni di queste parole di Chiara Lubich: «a quanti si vedevano simili a Lui e accettavano di condividere con Lui la sua sorte ecco che Egli risultava: al muto la parola, a chi non sa, la risposta, al cieco la luce, al sordo la voce, allo stanco il riposo, al disperato la speranza […] Così con Lui le persone si trasformavano e il non senso del dolore acquistava senso» . Possiamo dire dunque che Egli ha provato «la più alta cima della finitezza» . Egli ha gridato «il perché al quale nessuno aveva risposto, perché noi avessimo la risposta ad ogni perché» . Mi accingo ora indicare alcuni punti conclusivi, rendendomi conto che potrebbero aprirsi altre piste di approfondimento. La comprensione del grido di Gesù Abbandonato in Chiara Lubich ha acceso nella notte della cultura contemporanea una nuova stella che attende di essere ulteriormente compresa. La sofferenza, il dolore, la morte, restano il mistero più temuto della vita di ogni uomo. Per chi ha fede, l’eternità è già iniziata ma questo non ci esonera dall’angoscia di ciò che dovremo subire e che comunque – anche nella migliore delle morti – vorrà dire distacco definitivo da tutto ciò che abbiamo amato. In questo mistero è entrato fino in fondo Gesù Abbandonato che – solo per amore – si è fatto uno di noi fino al «tutto è compiuto» (Gv 19, 30). Il nulla non significa più horror vacui, terrore di sprofondare nel vuoto; Qualcuno vi è entrato assumendolo, per tutti noi, forse soprattutto per chi non è riuscito ancora ad accogliere nella sua vita l’apertura al trascendente. In un certo senso il grido di Gesù Abbandonato è quello dell’ateismo contemporaneo . Smarrimento, senso di abbandono, difficoltà comunicative, domande esistenziali pressanti quanto più inespresse, attendono una risposta. Se non avessi incontrato Gesù Abbandonato questo impatto avrebbe frantumato le mie speranze di poter trovare un senso a tutto ciò. C’è Chi comprende fino in fondo il dolore e la morte perché non solo non vi si è sottratto ma vi è entrato volontariamente ed in una misura assolutamente al di là della nostra comprensione. Don Foresi analizza il significato della parola abbandonato nell’espressione ebraica che si può tradurre come «il lasciar stare una persona, senza intervenire, in una situazione dolorosa» . Dunque il perché gridato da Gesù nell’abbandono potrebbe essere anche espresso nella domanda «perché mi lasci così?». Questa è la domanda più profonda, non certo quella di potersi sottrarre al comune destino della mortalità, quanto al “senso” di tutto ciò che sperimenta un malato terminale nel vivere una situazione che non può essere cambiata. La domanda sospesa è essa stessa la risposta. La risposta non è una teoria né un sermone, la risposta è una persona. Una risposta però deve essere udibile, comprensibile, formulata in categorie del pensiero umano. Donata all’umanità da un carisma, è stata già tradotta per molti in esperienza vitale, esperienza che a sua volta ne ha aiutato la comprensione, con nuova fecondità di pensiero, specie in campo filosofico, esegetico, teologico e spirituale. Mi sembra occorra ora che questa risposta vada espressa anche negli ambiti propri della medicina, diventando fulcro di una riflessione scientifica interdisciplinare, allargando la prospettiva delle implicazioni della “scoperta” di Chiara. Se «l’alchimia divina» - per chi già ha accettato di riconoscere e rivivere nella propria esperienza di terminalità un aspetto di Gesù abbandonato - «tramuta il dolore in amore» , e cioè in pienezza pur nella fine, come poter offrire ciò per molti? Come quel grido, che sembrerebbe indicare infinita separazione, può essere il punto del ricomporsi delle varie dimensioni della persona smembrate dalla malattia? La Medicina sta cercando di uscire dall’ambito strettamente organicistico in cui la tecnologia l’ha confinata, per riappropriarsi di una dimensione di cura globale della persona, che comprenda anche la dimensione spirituale. Molti professionisti che lavorano nell’ambito della terminalità percepiscono chiaramente che questo aspetto non può più essere trascurato se non altro perché funzionale al miglior esito possibile delle cure prestate. L’attenzione ai bisogni spirituali ha messo in luce - anche con questionari specifici - quali sono le domande aperte dei pazienti. Ma quali le risposte non più eludibili? Il sollievo della componente spirituale del dolore troverà in alcune figure a ciò preparate e dedicate un qualche contributo, ma non per tutti i pazienti. In che modo questa risposta può essere bagaglio di ogni professionista del mondo sanitario? Se lo studio e la riflessione sul grido di Gesù abbandonato “uscissero” ad incontrare gli studenti nel loro periodo di formazione - e perciò venisse offerto con categorie scientifiche - non ci troveremmo forse così impreparati ed a disagio di fronte ai nostri pazienti ed alla domanda già citata e che qui ripropongo: «quale spazio dare al dolore spirituale nella relazione terapeutica?» . Conosciamo bene il variegato mondo della patologia, occorre ora aiutare a ritrovare il senso della vita anche quando questo è difficilmente percepibile, oscuro, se non distorto e respinto, perché Gesù Abbandonato si è calato dentro il non senso, per riaccendere la speranza . Con la speranza di aver in piccola parte contribuito ad alimentare questa ricerca, per il bene dei nostri pazienti e del nostro mondo sanitario vorrei chiudere il mio lavoro con l’augurio che queste parole di Chiara Lubich divengano realtà: «Gesù abbandonato […] sintesi di tutti i dolori del corpo e dell’anima; medicina quindi di ogni dolore dell’anima e sollievo di ogni dolore del corpo» .