Quella che viene definita come fase terminale nel decorso clinico di un paziente costituisce forse la sfida più impegnativa e coinvolgente per il medico.
Noi medici siamo “programmati” per guarire, non per accompagnare il paziente alla morte; la morte viene spesso vissuta come una sconfitta, se non come un fallimento professionale.
Eppure, in particolare nel fine vita, si è interpellati proprio nell’aspetto più profondo e cruciale dell’arte medica: al di là del sapere scientifico e tecnologico infatti, la medicina si attua nell’ambito della relazione e della comunicazione.Fin dall’antichità il farmaco più frequentemente usato nella pratica medica era il medico stesso.[1]
Non esiste alcuna farmacologia di questo importante farmaco. Nessuna linea-guida è presente in nessun manuale.
Negli ultimi decenni si sta sempre più riscoprendo il ruolo che riveste l’aspetto della comunicazione in medicina, definita anche come la pietra angolare di una pratica medica efficace[2]. Ma quale comunicazione e quale relazione?
In medicina, il pericolo è quello di ridurre la comunicazione con il paziente all’insieme di atti tecnologici, protocolli di terapia per la diagnosi e il trattamento di una malattia. Il rischio, in altre parole, è quello di curare la patologia dimenticando il proprietario della stessa.
La comunicazione non può certo essere solo uno scambio di informazioni: richiede di stabilire una relazione che si costruisce nel tempo, con il paziente, con i familiari, con gli altri operatori professionali.
Nel dibattito odierno in ambito medico e bioetico, non solo la qualità di vita, ma anche la qualità della morte si evidenzia come una priorità; da un rapporto recente pubblicato dall’Economist Intelligence Unit, che cerca di “misurare” la qualità della morte in 40 nazioni, risulta tra l’altro che l’Italia è al 24 posto.
In questo indice di qualità della morte, oltre al controllo del dolore, alla formazione, si considera come indicatore determinante la trasparenza della comunicazione tra medico e paziente.
In genere si è portati a credere che parlare di argomenti che riguardano la morte e il morire, possa aumentare il carico emotivo del medico e aggravare lo stress per il paziente e per i familiari. Questa convinzione spesso fa sì che operatori sanitari, parenti ed amici dei pazienti morenti si chiedano: "ma che cosa posso dire?" senza trovare risposte.
Eppure si è evidenziato che in realtà favorire una la comunicazione su questi argomenti non risulta particolarmente stressante per gli operatori e può essere di aiuto, per i pazienti e per i loro familiari [3].
La comunicazione che si instaura con il paziente, ma anche con i suoi familiari, è l’aspetto più importante dell’inter-professionalità nell’ambito dell’assistenza sanitaria. Per il paziente i familiari costituiscono un legame fondamentale con il mondo esterno, con la sua biografia personale, con i suoi valori[4]. E’ quindi fondamentale inserire la famiglia del paziente nel circuito della collaborazione professionale[5], tenuto conto che una comunicazione efficace con la famiglia può addirittura migliorare il processo clinico e gli stessi outcome[6].
Quali possono essere le strategie più adeguate? Dalla ricerca e dall’esperienza clinica se ne sottolineano alcune, quali il parlare in modo semplice e veritiero, l’ascolto, la volontà di parlare con la persona, il comunicare le “cattive notizie” con sensibilità, ma anche incoraggiare le domande, l’essere attenti a cogliere i momenti nei quali il paziente vuol parlare della morte imminente. Un aspetto fondamentale è che il medico riesca ad attuare un corretto rapporto tra l’essere veritiero e sincero senza distruggere ogni speranza. Sono queste alcune caratteristiche di una comunicazione che inizia con la diagnosi e che deve accompagnare il paziente fino al momento della morte[7].
Il processo assistenziale non si può risolvere in un protocollo da scomporre in procedure. Vi è implicata una dimensione umana imprevedibile, non standardizzabile, da giocare dentro la relazione personale, singolarmente.
La comunicazione è spesso la componente principale della gestione del paziente nelle patologie croniche e nelle cure palliative: a volte è tutto quanto si può offrire al paziente.
E’ stato affermato che, a confronto con la maggior parte dei farmaci, le abilità nella comunicazione hanno indubbiamente un’efficacia palliativa (spesso riducono significativamente i sintomi), un ampio indice terapeutico (il sovradosaggio è raro), e il problema più comune nella pratica è un dosaggio sub-ottimale[8].
Anche le criticità che emergono nelle decisioni di fine vita derivano spesso da carenze nella comunicazione. Un esempio: negli Stati Uniti negli ultimi 20 anni sono state implementate le direttive avanzate come strategia per migliorare le cure di fine vita. Si sostiene che siano state adottate soprattutto per supplire alla mancanza o comunque alle difficoltà di comunicazione [9].
Eppure è in corso una nuova discussione sulle dichiarazioni anticipate, perché non sembrano aver risolto il problema di una comunicazione adeguata.
Tra le possibili cause vi sono, oltre agli atteggiamenti dei medici, infermieri, parenti, la disorganizzazione o la mancanza di chiarezza nella documentazione, il linguaggio vago e inconsistente dei documenti. Inoltre, anche se le dichiarazioni anticipate sembrano aumentare la possibilità che vengano rispettati i desideri espressi dal paziente, in realtà la percentuale di compliance con tali desideri risulta essere scarsa.
Le situazioni conflittuali sono frequenti nelle cure di fine vita, minano la relazione terapeutica, provocano insoddisfazione nei familiari: si ritiene che derivino dalla sensazione di essere ignorati o non ascoltati[10].
Una conseguenza di tali problematiche si potrebbe ravvisare in quella che è stata definita sindrome “della porta girevole” [11], cioè il fenomeno dei ripetuti ricoveri per riacutizzazioni di patologie croniche, dovuti ad aspettative irragionevoli dei familiari, alla riluttanza dei familiari stessi a prendersi la responsabilità delle decisioni di cura, ad un approccio euristico da parte dei medici nei processi decisionali. Si sostiene che l’uso di strategie di comunicazione per mettere in accordo le diverse aspettative potrebbe migliorare anche la qualità dei processi decisionali.
Ma ovviamente questo ha ripercussioni anche sul piano economico. Ad esempio, da uno studio su oltre 600 pazienti oncologici per i quali si prevedeva un’aspettativa di vita di 6 mesi[12], si è evidenziato che nell’ultima settimana di vita i costi aumentavano drasticamente proprio per il ricorso ad ospedalizzazione, ricoveri in reparti di terapia intensiva, implementazione di terapie aggressive. Si è studiata l’associazione tra costi e qualità di vita nell’ultima settimana di vita, per valutare se le spese potevano essere giustificate da una migliore qualità di vita.
I risultati dimostrano che, in aggiunta ai costi più elevati, le carenze nella comunicazione si associano ad una peggior qualità della morte, secondo quanto espresso dai familiari.
Ne deriva allora che una comunicazione adeguata, oltre a contenere le spese sanitarie, è in grado di migliorare la qualità della vita e della morte.
Un fattore cruciale nella comunicazione riguarda anche i tempi in cui viene attuata.
Al fine di prevenire terapie aggressive alla fine della vita, si richiede una comunicazione attiva tra medico, paziente e familiari e l’elaborazione di strategie efficaci per fornire informazioni corrette sulle preferenze di cura, già in tempi precedenti la terminalità. In effetti, per assicurare una migliore qualità di vita al morente occorre concentrarsi sul quotidiano, piuttosto che sui momenti estremi.
In questa prospettiva, vanno tenuti presenti alcuni fattori che possono essere di ostacolo per il paziente nel dare un significato alla terminalità. Le perdite a livello fisico ed emotivo, la dipendenza da altri, sono aspetti inevitabili con cui il paziente si deve confrontare, ma a questi si aggiungono spesso una scarsa conoscenza e rispetto per le differenze culturali e per le convinzioni religiose, la mancanza di interazioni significative e un dialogo non adeguato con gli operatori [13].
Il timore più profondo vissuto prima di tutto dal paziente, ma anche dai familiari, è quello di essere abbandonati. Quando il piano di cura prevede di interrompere i trattamenti volti a incidere sulla patologia, è un momento particolarmente delicato, in cui il paziente ha bisogno di essere rassicurato sulla continuità del rapporto con il medico.
Negli ultimi giorni di vita, l’approccio convenzionale del “provare a fare qualcosa per il paziente”,
dovrebbe spostarsi dall’aspetto tecnologico a quello relazionale [14].
Si deve riaffermare il valore professionale del “non-abbandono”[15], principio fondamentale della medicina, valore chiave della professionalità medica [16] [17], che richiede di assicurare la continuità di cura sia per la disponibilità nella competenza che nella relazione terapeutica, ma anche di curare la conclusione di una tale relazione, rendendosi presenti e disponibili ai familiari dopo il decesso.
Due presupposti appaiono imprescindibili per attuare una comunicazione soddisfacente; il primo è la formazione dei medici e degli operatori sanitari ad assistere le persone al termine della vita, formazione ancora carente sia a livello accademico che nel post-laurea.
Il secondo consiste nell’imparare a lavorare in équipe, dato che attualmente la medicina esige non più la competenza del singolo professionista, ma piuttosto l’integrazione di svariate competenze.
Confrontando gli ambiti sanitari dove si attuano modalità di collaborazione reale all’interno del team di cura, si è evidenziato che i fattori che più influenzano la soddisfazione degli operatori e l’efficacia percepita del team risultano essere la collaborazione, la risoluzione del conflitto, la partecipazione, la coesione [18].
I diversi operatori potranno acquisire in tal modo un “atteggiamento omogeneo”, senza contraddizioni, e il paziente potrà scegliere l’interlocutore preferenziale, più consono alla sua sensibilità.
Il team non va letto solo nella prospettiva del paziente, anzi, dovrebbe essere letto prima di tutto nella prospettiva degli operatori: è il primo luogo per elaborare anche quegli oneri psicologici e spirituali che il lavoro assistenziale, nel tempo, può comportare. La possibilità di condividere con altri il coinvolgimento emotivo di fronte ad una situazione particolarmente dolorosa, di confrontare una decisione difficile, di chiedere un parere è un aiuto fondamentale.
Un ulteriore riflessione: si sta affermando l’importanza di comprendere la cura spirituale all’interno dell’équipe multidisciplinare, con il risultato tra l’altro della riduzione del rischio di terapie aggressive, oltre al miglioramento della qualità di vita [19].
Ma il “prendersi cura” secondo quanto considerato finora, ha ripercussioni anche sulla dimensione psichica e relazionale del medico e dell’operatore. Ciascuno di noi potrebbe riportare dei momenti significativi nella sua esperienza professionale nei quali si è sentito “costruito”, a volte “sanato” dal rapporto costruito con il paziente, dal supporto dei colleghi.
In questo modo si potrà realizzare un ambiente assistenziale che sia realmente “terapeutico” nel significato più ampio del termine e per ogni persona coinvolta nella relazione di cura.
[1] Branch W.T., Is the therapeutic nature of the patient-physician relationship being undermined? Arch Intern Med. 2000;160:2257-2260
[2] Doherty E., C. O’Boyle C., Shannon H., Mcgee H., Bury G., Communication skills training in undergraduate medicine, Irish Medical Journal 1990; 83: 54-56
[3] Emanuel E.J., et al, Talking With Terminally Ill Patients and Their Caregivers About Death, Dying, and Bereavement Is It Stressful? Is It Helpful? Archives Internal Medicine. 2004;164:1999-2004.
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[5] Thompson DE., Interprofessionalism in health care: Communication with the patient's identified family. Journal Interprofessional Care. 2007Oct;21(5):561-3.
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[10] Kendall A., Arnold R.M., Conflict Resolution: Careful Communication. Journal of Palliative Medicine 11(6);2008: 925-927
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[18] Lemieux C., Mc Guire W.L., What do we know about health care team effectiveness? A review of the literature, Med Care Res Rev 2006;63(3): 263-300