Al fine di prevenire terapie aggressive alla fine della vita, si richiede una comunicazione attiva tra medico, paziente e familiari e l’elaborazione di strategie efficaci per fornire informazioni corrette sulle preferenze di cura, già in tempi precedenti la terminalità. In effetti, per assicurare una migliore qualità di vita al morente occorre concentrarsi sul quotidiano, piuttosto che sui momenti estremi.
In questa prospettiva, vanno tenuti presenti alcuni fattori che possono essere di ostacolo per il paziente nel dare un significato alla terminalità. Le perdite a livello fisico ed emotivo, la dipendenza da altri, sono aspetti inevitabili con cui il paziente si deve confrontare, ma a questi si aggiungono spesso una scarsa conoscenza e rispetto per le differenze culturali e per le convinzioni religiose, la mancanza di interazioni significative e un dialogo non adeguato con gli operatori [13].
Il timore più profondo vissuto prima di tutto dal paziente, ma anche dai familiari, è quello di essere abbandonati. Quando il piano di cura prevede di interrompere i trattamenti volti a incidere sulla patologia, è un momento particolarmente delicato, in cui il paziente ha bisogno di essere rassicurato sulla continuità del rapporto con il medico.
Negli ultimi giorni di vita, l’approccio convenzionale del “provare a fare qualcosa per il paziente”,
dovrebbe spostarsi dall’aspetto tecnologico a quello relazionale [14].
Si deve riaffermare il valore professionale del “non-abbandono”[15], principio fondamentale della medicina, valore chiave della professionalità medica [16] [17], che richiede di assicurare la continuità di cura sia per la disponibilità nella competenza che nella relazione terapeutica, ma anche di curare la conclusione di una tale relazione, rendendosi presenti e disponibili ai familiari dopo il decesso.
Due presupposti appaiono imprescindibili per attuare una comunicazione soddisfacente; il primo è la formazione dei medici e degli operatori sanitari ad assistere le persone al termine della vita, formazione ancora carente sia a livello accademico che nel post-laurea.
Il secondo consiste nell’imparare a lavorare in équipe, dato che attualmente la medicina esige non più la competenza del singolo professionista, ma piuttosto l’integrazione di svariate competenze.